da Denis De Rougemont "L’istruzione pubblica è una peste"
tecniche di sopravvivenza per scolari e insegnanti d'altri tempi.
tecniche di sopravvivenza per scolari e insegnanti d'altri tempi.
(stay tuned)Dall’età di sei anni s’istruiscono i nostri bambini a non porsi domande di cui non abbiano appreso la risposta a memoria. Guardate uno scolaro eseguire i compiti, è sorprendente: impara le domande altrettanto bene delle risposte. Bisogna riconoscere che con questo non so che di declamatorio, di… giornalistico, di ampollosamente vuoto, questo vi dà una certa aria democratica… e d’altronde voi amate le idee generose, non è vero?
Ne ero sicuro. Ciononostante ho paura che il mio progresso non sia il vostro, e anche che la sua natura lo conduca in una direzione completamente opposta.
C’è molta malevolenza nell’aver inventato uno strumento di progresso: bisogna ancora saperlo mettere in moto - e dove portarlo? Ci sono molte strade, ma voi non amate il rischio, preferite il surplace. Così l’istruzione pubblica si è fermata ai dintorni del 1880 e da allora non si è più mossa. Il motore non consuma di meno, e non ha smesso di borbottare e di appestare tutto. E poco a poco il pubblico si rende conto che "lo strumento di progresso" non è che un camuffamento sotto il quale si distilla il radicalismo integrale. Mi si farà osservare che molti serventi della macchina sono socialisti o conservatori: ecco che questo non cambia il rendimento, l’immagine né la natura dei prodotti secreti.
Ammetto che trovo tutto questo molto forte: aver ottenuto un conformismo della curiosità. È vero che non ci vorrebbe di meno per assicurare la sicurezza di un regime stabilito nelle poltrone; perché un popolo di elettori fantasiosi sarebbe a volte tentato di tirare bruscamente queste sedie, scherzo ben noto e che ridicolizza immediatamente le sue vittime.In fatto di scherzi, fingerete di trovar buono questo: io sostengo che la scuola è un’istituzione conservatrice. - Nemmeno questo! Essa è destinata a legittimare con la forza dell’inerzia e a perpetuare tutto ciò che viene dopo Numa.
Conservatrice e non reazionaria, no, per nulla. Perché le forze di reazione collaborano a loro modo al progresso, correggono, stimolano, vivono. La Scuola si accontenta di essere fossilizzata. È un freno? Neanche. È piuttosto una melma in cui sprofonda la nostra civiltà; e dove la Democrazia può conservarsi ancora per secoli… Ora, se dico che la Scuola è contro il progresso, è perché il progresso consiste nel superare la Democrazia. E questa tesi non va contro l’evoluzione naturale dell’umanità, come tuttavia non mancherete di dire, con il senso del cliché che è un omaggio ai vostri maestri.
Per mezzo dell’istruzione pubblica, la Democrazia limita l’uomo al cittadino. Si tratta dunque di oltrepassare il cittadino, di ritrovare l’uomo tutto intero. In questa operazione distinguo due fasi: prima criticare l’esistente - attraverso il confronto con ciò che fu, o che dovrebbe essere; poi, preparare il terreno per i nuovi giochi che l’umanità del futuro non mancherà di inventare. Non posso trattenermi dal vedere un intento provvidenziale in questo amore della distruzione e dell’anarchia che è in noi - ancora pochi lo ammettono. Perché forse la nostra generazione dovrà limitare i propri sforzi a distruggere, radere al suolo, e fare dei segni nel vuoto con la possibilità di correre grossi rischi.
Criticare il presente nel nome del passato non significa desiderare un ritorno al passato. Ma prendere in considerazione i regimi antichi può condurci a constatare, nulla di più, che il nostro sedicente progresso sociale corrisponde a un arretramento umano. Per esempio, è un progresso aver rimpiazzato le gerarchie tradizionali, con tutto l’ampio sfondo di poesia e di grandezza che questa parola comporta - quali ne fossero allora le realizzazioni - con delle gerarchie da mezzemaniche la cui origine è un ripiego, il cui metodo è la poltroneria redditizia, il cui spirito è la gelosia irrancidita armata di pedanteria, per non parlare del decoro, degli odori, della polvere, delle piccole abitudini sordide e di quella materia raramente “igienica” che definisce la nostra epoca: la scartoffia?
Questa critica del burocraticismo, state per dirlo, è un’accozzaglia di luoghi comuni. Ma ce n’è bisogno, ahimè, tanto più che la maggioranza degli elettori li considerano come tali. E non mi considererò battuto quando mi si sarà fatto notare che la maggior parte degli intellettuali sono convertiti da tempo a queste idee antidemocratiche: è tempo che esse sconfinino da questa cerchia ristretta e distinta. Ci sono da fare le grandi pulizie, c’è da creare un’intensa corrente d’aria che porterà con sé tutte queste statistiche e questi giornali, ne resterà sempre abbastanza per accendere fuochi di gioia, ecc. Bene. Immaginiamo che tutto questo sia stato fatto. Respiriamo. Ma voi mi aspettate già al varco e m’intimate di dire in che modo, ora, intendo comportarmi per preparare i tempi nuovi. Domanda enorme. Avrò l’ingenuità non meno enorme di abbozzare qui la risposta che le riservo?
L’istruzione pubblica è la forma più comune della peste razionalista che imperversa nel mondo dal XVIII secolo (dopo le ultime pesti nere). Se approfondite un poco la nozione di democrazia, scoprirete presto che essa si fonda su postulati razionalistici. In verità, democrazia e razionalismo non sono che due aspetti, uno politico, l’altro intellettuale, di una stessa mentalità. Essa si è sviluppata nel XVIII secolo nell’aristocrazia, che vi vedeva niente di più di un gioco. Durante tutto il XIX secolo essa è scesa nella borghesia e nel popolo; e qui è diventata una tirannia. Prima c’erano la Ragione e i sentimenti. Ora ci sono il razionalismo e il sentimentalismo.
Questo razionalismo trionfa non soltanto nei princìpi democratici e in quelli della Scuola, ma anche in tutta la moderna conduzione della vita. È il nostro americanismo e la nostra aridità sentimentale. Ed è il grande impedimento interiore di cui soffre la nostra immaginazione creativa; esso isterilisce le nostre utopie ed impedisce loro di diventare altro che utopie. Si tratta in primo luogo di smascherarlo e di dargli la caccia ad ogni passo della nostra vita. Ma questo primo obiettivo costituisce un programma così ricco che è superfluo formularne un secondo. Lasciamo questo pensiero a generazioni più libere d’immaginare, in grado di beneficiare della nostra collera giacobina e di questa formidabile esperienza negativa che sarà durata almeno due secoli.L’evoluzione dell’umanità sembrerebbe conforme alla dialettica hegeliana; vi si ritrovano facilmente le triadi: essere - negazione dell’essere - nuovo essere. La nostra epoca sarebbe il secondo tempo di una di queste triadi. Il suo razionalismo nega l’essere sotto tutte le sue forme, traduce tutto in relazioni e vuole rendere ogni relazione cosciente, ossia, per lui, calcolabile, computabile. Nella misura in cui ci riesce, uccide le esistenze particolari, a meno che queste non siano già morte. Ma verrà il tempo in cui esse rinasceranno ad una vita nuova e più completa, ad un grado superiore di incoscienza, se così posso dire. Allora toccherà all’istinto integrare la ragione.
Credo che ci stiamo avvicinando a questo tempo. E che il vero progresso vuole che si contrasti tutto ciò che ostacola questo avvento. È per questo che rivendico l’espulsione della congregazione radicale degli insegnanti.Mi si domanda ancora che cosa metterei al loro posto. E dal momento che non propongo niente di preciso, si canta grossolanamente vittoria.Avrei voluto vedervi chiedere a un suddito di Luigi XIV che cosa concepiva in luogo della monarchia assoluta. Ci sarebbe voluta certamente una fantasia prodigiosa al predetto suddito per rappresentarsi appena vagamente la nostra attuale civiltà. E anche Diderot, anche Rousseau, alla vigilia della Rivoluzione, sospettavano forse che la repubblica ricercata si sarebbe abbandonata, appena cent’anni dopo,a questo ballo di San Vito politico di cui niente, nel loro tempo, poteva offrire la minima prefigurazione?
Bene, deducete da questa similitudine le formidabili possibilità che ci riserva il secolo a venire, e comincerete a comprendere che il vostro scetticismo nei confronti della forma sociale che invochiamo senza conoscerla e che già si elabora segretamente, che questo disprezzo e questo scetticismo sono di un ridicolo schiacciante, sotto il quale non tarderete a perire. [Denis De Rougemont - L’istruzione pubblica è una peste razionalista da Il Riformista, 30 novembre 2005]
NOTE
Non amo lo studio, non l'ho mai amato in verità. L'ho subito per tanto tempo che solo ora mi rendo conto quanto mi abbia stremato - salvo pochi anni d'esordio,dai miei quattro a sei anni.
Un'attività coatta che superavo socializzandola per forza, per così dire, cioè studiando mai da solo e sempre con un compagno, spesso in gruppo, e allargando l'ambito con scambio degli appunti a lezione, sintesi, testi recuperati sempre altrove; come se giocassi a pallone o facessi i bagni a mare con gli amici. Rompevo così almeno l'accerchiamento dei dotti, non potendo rivendicare i ciuccioni (non ero così bello e tosto).
In effetti non amo la cultura. L'ho subita e l'ho sopportata sempre per la possibilità di incontrare con essa gente sconosciuta o lontana nello spazio o nel tempo.
Questa premessa, e l'altra, per dire quanto mi venga da lontano il rifiuto della scuola. Sopra tutto la scuola buona, quella che la violenza coatta della cultura te la fa introiettare senza parere. Almeno i cattivi maestri infatti sono palesamente mauvaises e spuntati.
In fondo noi trattiamo di scuola come addestramento e quando passiamo ai toni alti con la questione della formazione umana, della scuola dei maestri di vita, facciamo danni incommensurabili.
L'addestramento è galera visibile, la formazione che si specializza in Forma Scuola è pura crudeltà moderna.
La "scuola" pubblica dello stato dovrebbe essere chiusa una volta per sempre, e basta. Almeno in un paese civile, occidentale, a struttura liberale e aperta. Poi, naturalmente, liberi di farla a proprie spese, ovvio.
Mi ha sempre colpito in Emma, la Castelnuovo poco Bovary e molto Gustave, il come si ponesse con i suoi ragazzini tra uguali, senza neanche le rettoriche del lavoro comune, almeno quelle che elaborano specificamente la materia che trattano - senza lasciarla respirare en plein air nei tratturi con cui si guadagnano gli alti piani. E Célestin, nostro Freinet? Spudorato, come don Lorenzo del resto nella sua pulsione pedagogica, in ogni caso rompe il senso comune: e quindi questo è bene se pensiamo a dove fossero questi nostri eroi ribelli.
Della mia vita scolastica rivendico, sia chiaro, non un generico ribellismo - del quale non facevo carico più di tanto alle pratiche tra i banchi e le cattedre - ma la testimonianza, l'esperienza del dissidio.
(Oggi tutto ciò è maturo, pregno: ha solo da essere partorito nei posti e nei momenti giusti).
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