“Aiuta Marco e Luca a determinare l’equazione che rappresenta la
curva…”.
Le risparmio il seguito della storia (anche perché come Ministro
probabilmente l’avrà avvallata, se non approvata). Io sono una persona
mediamente altruista e con me anche i miei studenti e le mie
studentesse; tutti noi aiutiamo volentieri persone reali o
immaginarie, come Marco e Luca. Ma lei deve aiutare me a capire come
si possa presentare ad un ragazzo od una ragazza di 19 anni, persona
ormai adulta come me e come lei, un quesito sotto forma di simpatica
sfida alla Geronimo Stilton. Molte volte con mio figlio, che però ha 9
anni, ho allegramente abbracciato la sfida di un “Aiuta Geronimo a
trovare l’uscita dal labirinto .. “. Sono l’unico a trovare non
dignitoso un compito di matematica messo in questa forma? Forse si,
nel qual caso si conferma la mia inadeguatezza all’insegnamento o a
cercare di aiutare Marco e Luca.
Ma lasciamo pure perdere la forma dei quesiti, che a me comunque pare
importante (la scuola si rende tacitamente complice, in questo modo,
di alimentare una società dell’apparenza in cui la sostanza nessuno sa
più dove si trovi). Il secondo aspetto che mi preme può apparire di
nuovo legato alla forma esteriore, ma non lo è, secondo me. Cambio
prospettiva e le parlo del secondo quesito dove si chiedeva allo
studente di aiutare (sic) Mario a progettare una teca di vetro di
forma conica che contenesse un antico e prezioso mappamondo. Il succo
della sostanza era il seguente: “trovare il cono di superficie minima
che inscriva una sfera di raggio R fissato”. È una domanda matematica,
semplice, lineare, diretta, comprensibile, ma prima di tutto
matematica. Qual’è il valore aggiunto di travestire questa domanda con
una implausibile storia di mastri vetrai e di teche di cristallo? Io
non lo vedo. O meglio, vedo un ulteriore tentativo (in atto da anni a
dire il vero) di impoverire il discorso matematico facendo credere
(addirittura insegnando) che la matematica è un linguaggio con cui si
possono risolvere problemi quotidiani, di tutti giorni. Vede Ministro,
io credo che dietro questa impostazione ci sia un pensiero pericoloso
ed avvilente: la matematica ha senso farla, studiarla, impararla solo
in quanto utile a qualcosa. È un discorso che si inquadra
perfettamente nel nostro tempo dove alla vecchia domanda “cos’è” si
sostiuisce ormai immancabilmente un terribile “a cosa serve”,
riducendo la curiosità a mera lista della spesa degli attrezzi
utili. A cosa serve? A cosa serve trovare il cono di area minima?
Allora inventiamoci una matematica del fantabosco che invece serva:
troviamo la forma della teca di cristallo che il mastro vetraio deve
inventarsi.
Perché non è più pensabile insegnare la matematica per il valore della
matematica? Perché dobbiamo diluirla in problemi fintamente
quotidiani? Le svelo un segreto, Ministro, nessun mastro vetraio al
mondo farà mai una derivata per trovare il minimo di una
superficie. Così come nessun matematico al mondo usa la matematica per
fare la spesa, guidare la macchina, trovare la morosa, giocare ad un
videogioco. Perché non possiamo insegnare, e chiedere, ai nostri
ragazzi ed alle nostre ragazze, un ragionamento puramente e
meravigliosamente matematico? Perché dobbiamo forzatamente costruire
dei contesti quotidiani del tutto inventati e privi di fondamento?
Riscopriamo la gioia dell’inutile, del concetto astratto senza
applicazione che è proprio della poesia più alta.
È il problem solving, mi dicono i colleghi. Dobbiamo insegnare a
risolvere problemi, la lettura di un testo, sono le competenze. Ed in
nome delle competenze (qualcuno un giorno mi spiegherà cosa sono le
competenze, se ne parla da anni e ancora non ho sentito una
definizione ragionevole e ragionata, ma solo tante parole per riempire
carta, convegni, documenti e le tasche di chi si costruisce una
fortuna con l’idea del momento), in nome delle competenze possiamo
buttare via una delle più grandi conquiste intellettuali dell’umanità:
l’astrazione matematica. Ci sono voluti più di duemila anni per
renderci conto che la matematica non parla (solo) del mondo reale, ma
è un’attività che ha una sua dignità astratta indipendente da
qualsiasi applicazione. Fare matematica significa saper risolvere
un’equazione di secondo grado (per dire) indipendentemente dal fatto
che rappresenti il moto di un corpo soggetto ad accelerazione
costante, l’energia potenziale di un’oscillatore armonico, le piccole
oscillazioni dell’asse di una trottola durante il moto di precessione,
l’andamento di un certo titolo in borsa o il segnale elettrico del
cuore di un topo della Birmania. Ed è proprio nell’astrazione dal
problema specifico che risiede la sua natura più profonda e la sua
bellezza (si può ancora parlare di bellezza a scuola? anche se non
serve a nulla?).
Prevengo la critica dicendo subito che non sono ovviamente contrario
ad insegnare anche la matematica in un contesto applicativo. Anche. I
miei studenti e le mie studentesse sanno lo sforzo che faccio
quotidianamente per inquadrare la matematica anche nel suo contesto di
linguaggio scientifico, con applicazioni in fisica, economia, biologia
etc. Ma lo si faccia non in modo esclusivo, ma a supporto di un’idea
comunque astratta e dignitosa ed indipendente della
matematica. Altrimenti la si tolga dall’insegnamento come materia
fondante, si può tranquillamente fare durante le ore di fisica (o di
altra materia) tutta la matematica che serve. Ma se si decide di
avventurarsi sugli aspetti applicativi (ed io sono favorevole), lo si
faccia sul serio e per bene. Non si inventino problemi assolutamente
improbabili e (mi scusi) ridicoli su mastri vetrai o su meteoriti che
si scontrano (parlo del primo problema; bisognerebbe accertarsi, al
Ministero, sul significato delle parole, provi a capire cos’è un
meteorite e perché non può scontrarsi con alcunché se non il suolo
terrestre. Ma questo è un altro discorso.). Si pretenda da chi
costruisce problemi da dare ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze
serietà e competenza. Si costruisca un problema reale, anche di fisica
perché no, in cui la matematica sia un punto cardine per la
soluzione. Altrimenti si farà solo una parodia, piuttosto indigesta a
mio avviso, della matematica e delle sue applicazioni.
Mi sono dilungato anche troppo e non sono nemmeno sicuro che il
messaggio che volevo far arrivare sia arrivato. Le chiedo solo questo,
Ministro, da insegnante e da padre. Non privateci della matematica
pura nell’insegnamento superiore, non togliete uno degli ultimi
fertili terreni di fantasia che il reale ancora non è riuscito a
corrompere. Lasciateci la poesia dell’inutile, almeno a scuola.
Cordiali saluti, un professore confuso. Riccardo Giannitrapani