martedì 5 marzo 2013

Più unico che raro


Stéphane Hessel è morto a Parigi il 27 febbraio a 95 anni. 
Si salvò dalla morte con uno stratagemma. (Boris Pacor)


The life story of the famed rocket scientist Dr. Werner von Braun, one of the most brilliant and controversial figures of the space age. Dr. von Braun literally pioneered man's adventure ...[Alla conquista dell'infinito (1960) Wernher von Braun (original title) Film B&N USA]

Boris Pacor, 99 anni, racconta: «Eravamo entrambi deportati nel terribile campo di Dora Mittelbau, dove furono allestiti gli impianti per le bombe V1 e i razzi V2. In quel campo..».Qui l'SS Werner von Braun, the most brilliant and controversial figure (sic), perfezionava  con migliaia di operai-schiavi, con esiti controversi, i missili che volavano su Londra allo stremo.


E tre. Trasmettevano l'atterraggio sulla luna del progetto del Dr. Werner von Braun,  the most brilliant and ex-controversial figureandai a camminare sulla battigia, mangiai pane e  fichi con i piedi nell'acqua, ero solo. - tutti erano allo show,  deserto assoluto sui lungomare. Non so perchè, ma ero sicuro di non capire cosa ci fosse di notevole e interessante. EventoTv + FantaTecnologia + altre cose, il tutto nei fascinosi anni sessanta italiani pronti a passare la mano ad altri decenni di varia umanità.


Poi finisce che mi laureo e per sfuggire all'IBM [::] vado a Tivoli a fare il prof al Tecnico Galilei, giusto oltre la diga dell'Enel, ogni mattina. I tecnici erano le scuole più misconosciute in Italia, alcuni eccellenti, tutti comunque pieni di gente. A Tivoli i figli degli operai della gomma della Pirelli, i "garantiti", e dei lavoratori delle Cave di Travertino, i "precari". O almeno così risultava dalle assemblee di classe che fiorivano tra gli studenti - lo stipendio a fine mese ma i polmoni disastrati dai fumi neri versus la precarietà e la durezza nelle Cave - con l'istituto che cresceva nei numeri ma allo sbando sulle scelte, se non attrezzato con le banalità retoriche del boom economico e dell'industrializzazione [::]. Se ti occupavi di  Matematica, con o senza frequentare i laboratori di Fisica (le officine, per così dire, erano distanti dalle aule), si poneva subito la strumentalità delle discipline e l'azzeramento delle loro possibilità espressive nel quadro complessivo della società in cui la scuola doveva esprimersi essa stessa. La generale menata dell'  "imparare a scrivere senza aver nulla da dire"[::]  e a "calcolare avendo sul tavolo visibili gli elementi concreti" [::] era pane quotidiano.

Per la matematica un indirizzo servile, di servizio, e alle lettere la gloria eterna, virginale, dello scrivere bene e leggere meglio. Di mondo, sia qui che là, poco o niente, e questo era un bel guaio. Il livello generale decisamente scolastico da cui segue la storia della contestazione e di contro della dissoluzione del discorso istituzionale. La scuola si gonfia come la famosa rana ed il bove della società si allontana verso altri approdi.
Così la tecnica o meglio le questioni delle tecnoscienze, delle due culture, del contesto produttivo e della società democratica, del sapere diffuso, etc vengono rimandate sine die fino all'esplosione del digitale e della globalizzazione che ora rendono evidente il ritardo delle istituzioni culturali e delle altre in generale.


4 [::] text mode sovrascritture successive
Se avessi saputo del lavoro di Emma, mi chiedo, sarebbe cambiato qualcosa, cosa? Questo intanto dice molto dei tempi che correvano, dato che io non colsi i segnali che forse c'erano delle aperture timide e limitate quanto si vuole dell'università - e in specie dell'Istituto di Matematica Castelnuovo (Guido) - verso l'esterno. Trovai invece, in ogni modo, più semplicemente Emma e il suo lavoro in libreria con i miei mezzi, nello scaffale striminzito della didattica e della matematica, esercitando il mio vecchio mestiere di esploratore autodidatta, nient'altro; non avevo parole chiave particolari da inserire, culture specifiche da vantare, perchè non ho mai amato la scuola, i suoi campioni, che vedevo come bravi manzoniani; e poi non mi pensavo bene in una biblioteca se non come cane da tartufi, o in un museo, no. Insomma mi piacevano in quel tempo i miei rustici allievi così ben visibili e diversi, meno gli artisti e i liberi pensatori con cui mi accompagnavo da tempo, le loro raffinate nevrosi. Trovai semplicemente alla voce Didattica, alla voce Matematica, alla voce Insegnanti il primo libro di Emma, il primo di cui ho un vivido ricordo; lessi l'incredibile approccio che mi iniziava al mestiere, diretto, semplice da sembrare facile: gli errori, chiamati per nome, degli allievi e dell'insegnante, molto prima dei rimedi ad essi, con le vie regie, i precetti. In soldoni, il calcolo letterale e le frazioni, di sicuro; poi, la geometria. Non che io ne sapessi molto, ma erano il mood della vulgata scolastica dell'apprendimento della matematica. Me li trovavo mio malgrado appresso.
Tornai in quella libreria più volte leggendo oltre prima di comprare, non è che col denaro si scialasse, ma poi p'el timor di bucare feci mio il volume de La Nuova Italia.
Facevo cose che a pensarci ora mi sembrano lunari, come dare il passaggio alle puttane che rientravano come me all'ora pranzo, passando per tonto (capivano al volo che ero un pò tonto, con la testa per aria e sorridevano benevole tra sè e sè): il fatto era che io non avevo mai lavorato, neanche un minuto, ed il lavoro mi sembrava una specie di luogo da indagare, tant'era curioso. Quest'impronta per me non l'ha mai persa, il lavoro, quella di uno spazio privilegiato con cui la gratuità dell'arte e del pensare avevano soltanto dei debiti, ma niente di più. Ricordo il trucco pesante ormai sfatto delle signore che portavo, la sonnolenza dopo il lavoro e i risvegli bruschi al mattino, ricordo che c'era un mondo da indagare, che aspettava anche le mie risposte,  gli inutili anni dell'università erano svaniti in un amen. C'era Emma sul percorso e quelli che citava, quello strano De Finetti che francamente all'uni non avevo colto, altri che dirò, ma c'era soprattutto il rischio di deludere i mei tosti allievi che incitavo incoscientemente alla riscossa. Capito ora da quali distanze sideree vi parlo? Sovrascrivo il primo testo di stamane premendo il tasto aggiorna come se fossi io il lettore che infila nel testo i suoi pensieri

Umberto Galimberti
Qui è l'essenza del «pensiero unico» dove i criteri di valutazione sono «produttività»,«efficienza»,«calcolo»,accanto ai quali non ci sono pensieri alternativi o, se ci sono, sono pensieri marginali, ciò intorno a cui non accade mondo. Penso ai pensieri  «filosofici»,«teologici»,«poetici».Sono pensieri possibili, gratificanti, ma il mondo non si organizza a partire da questi pensieri. Allora qui la prima domanda che si pone è questa: siamo consapevoli che la diffusione anzi l'egemonia dell'economico, indicato esclusivamente dal denaro, possa costituire l'unica forma di pensiero a cui educare tutta l'umanità? E ancora: non è proprio qui il luogo decisivo del fallimento etico? Se tutti pensiamo in termini economici, che spazio c'è per un pensiero altro che non sia quello economico? E l'etica è un pensiero altro. Abbiamo stabilito prima un nesso tra tecnica ed economia e lo abbiamo individuato nel«mercato», che è divenuto così razionale da eguagliare la tecnica che è la forma più alta della razionalità raggiunta dall'uomo. A lei subordinata è l'economia che io considero ancora un'espressione «antropologica», perché ancora soffre di una passione umana, da cui è esonerata la tecnica, che è la passione per il denaro. 

Mi chiedo: in un mercato tecnicizzato è ancora consentito «agire» o non resta altro che «fare»? Colui che opera in un apparato «agisce» o «esegue»? E qui non penso solo all'impiegato, ma anche all'imprenditore che è a sua volta privato della possibilità di «agire» perché deve «eseguire» cioè «seguire» azioni descritte e prescritte dal mercato. A questo punto se «agire»vuoi dire compiere delle azioni in vista di uno scopo, e «fare» vuoi dire invece eseguire azioni già descritte e prescritte dall'apparato, che nella fattispecie è il mercato, allora come possiamo introdurre un' etica, là dove nessuno più «agisce»,perché tutti si limitano a «fare» e a «eseguire»? Mi vengono in mente quelle risposte che i generali nazisti davano quando venivano catturati e processati. Si chiedeva conto della loro condotta ed essi rispondevano: «Ho eseguito ordine».Qui abbiamo un esempio di cosa vuoi dire passare dall'«agire» al «fare». Perché colui che fa non è responsabile dei fini ultimi. Se io lavoro in una banca e questa banca, per ipotesi, sovvenziona la produzione delle armi e la sua esportazione io, impiegato, non sono responsabile: primo perché non sono tenuto a conoscere i fini ultimi, secondo perché, seanche li conoscessi, non sono autorizzato a prendere posizione. Allora qui io «faccio», ma non «agisco» più, perché i fini mi sono sottratti.

Ecco,se per noi ormai l'«agire» si riduce a «lavorare» dove il lavorare consiste nella pura esecuzione di azioni già descritte e prescritte, io sinceramente per l'etica non vedo alcuno spazio. Non disponiamo di un' etica all'altezza della tecnica e dell'economia globale. Qui bisogna incominciare a pensare.

Nessun commento:

search