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venerdì 27 settembre 2013

un gioco di vita

Freud: «La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita, non deve voler essere più che un gioco di vita».

+49, non male eh per un ciuccione come me
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/scuola_e_universita/catte/catte/catte.html
Non si tratta di una scuola per bambini, ma della «scuola» in generale,dalle elementari all'università, dove si dovrebbe imparare giocando, e dove il gioco non è una pausa, un intervallo, un momento di svago e di libertà, ma fa tutt'uno con l'apprendimento stesso.Naturalmente per accedervi è necessario sapere che cos'è un gioco e fuoriuscire da quel luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone alla serietà della vita adulta.Questo pregiudizio si fonda su due fraintendimenti. Il primo assimila il gioco allo spazio della libertà, della creatività, dell'evasione dalla realtà, dell'assenza di regole, il secondo fa coincidere la serietà,con l'aderenza alla realtà, l'assiduità, la buona volontà non esente da sacrificio,l'impegno, la costrizione. Tutte cose spiacevoli, da cui i ragazzi generalmente rifuggono. In realtà le cose non stanno così, perché il gioco prèvede delle regole che, non osservate, mettono subito il giocatore «fuori gioco». Se così non si facesse,tutti gli altri giocatori non saprebbero più «a che gioco si gioca». Senza regole, infatti, il gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà e non è l'antecedente della serietà, non è un'attività tipica della fase infantile da cui ci si congeda quando si diventa adulti. Il problema semmai è un altro: «Non si può insegnare a giocare». Si possono insegnare le regole del gioco, queste regole possono essere apprese da tutti, ma poi non è detto che uno «si metta in gioco», che voglia mostrare agli altri le sue attitudini o le sue inettitudini, che voglia «giocarsi»la faccia, e allora si dispone ai bordi del campo a vedere gli altri che giocano. A questo punto è possibile chiedersi: quanti insegnanti si mettono in gioco e quanti studenti sono in gioco e non invece ai bordi del campo?

lunedì 24 giugno 2013

Per questo Nietzsche

[Chi insegna a Chi] «Chi sa le lingue è un imbecille»

Infatti, quando si parla di una persona non si dovrebbe mai usare l'aggettivo "intelligente" perché la qualità che l'aggettivo vorrebbe designare non esiste.
L'intelligente infatti è una moltitudine di forme, la maggior parte delle quali trova nelle nostre scuole, nei centri di diagnosi psicologica e nel giudizio della gente solo la sua mortificazione.
È noto, ad esempio, che i superdotati vanno male a scuola, perché il modello di intelligenza che i professori hanno in mente e su cui misurano i rendimenti scolastici è costruito sulla categoria della "flessibilità", che nel caso dell'intelligenza equivale a "mediocrità".
Flessibile è infatti quell'intelligenza che, versata in ogni direzione, non presenta una particolare inclinazione per nulla, e perciò è in grado di dispiegarsi a ventaglio su tutto perché nulla la inclina in modo decisivo.
Così si stroncano inclinazioni sull'altare della genericità, che non è il nozionismo contro cui si sono fatte in anni passati stupide battaglie, ma la supposizione che l'intelligenza sia una dimensione versatile e versata per qualsiasi contenuto.
Non è così! Così come non è da privilegiare, come fa la nostra scuola, l'intelligenza "convergente",che è quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell'immaginazione, ma tende all'univocità della risposta a cui tutte le problematiche vengono ricondotte.

Più interessante, anche se meno apprezzata a scuola, è l'intelligenza divergente" tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici originali, perché invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni.


Nei suoi molteplici studi sull'argomento Howard Gardner, i cui libri sono editi da Feltrinelli, mostra che non c'è un'intelligenza generica, quella su cui di solito si applica la misurazione della scuola, ma forme così diverse fra loro che non è possibile unificarle e misurarle in modo uniforme. Ogni forma d'intelligenza, infatti, è percorsa dal "genio", che non è una prerogativa di Leonardo, ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa direzione, a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo.
Già a livello biologico si constatano differenze abissali per cui, ad esempio, a due anni c'è chi recepisce una sequenza di musica classica come "armonia" e chi come "dissonanza". Allo stesso modo c'è una "intelligenza linguistica" per la quale le parole non hanno profondità, ma superficialità.

Questi non sono giudizi di valore, ma dimensioni geometriche, in base alle quali il profondo ha a che fare con la verticalità e il superficiale con l'orizzontalità.


Un'intelligenza linguistica non scopre una parola nella sua radice e nel suo spessore di significato, ma è molto abile nel trasporre un termine o una costruzione da una lingua all'altra.
Ciò lascia supporre che chi è padrone di molte lingue ha un'intelligenza che non è turbata dalle differenze antropologiche e dalle differenze di mondo che in Italia hanno generato un linguaggio e in Germania un altro, per cui senza questo carico antropologico e senza questa sensibilità per la differenza dei mondi, può trasporre con maggiore agilìtà un termine da una lingua all'altra.

Per questo Nietzsche poteva dire: «Chi sa le lingue è un imbecille». L'espressione è perentoria e per i professori di lingue può suonare persino offensiva, ma il senso non è recondito.
Intanto si può trasporre un termine da una lingua all'altra in quanto non ci si è inabissati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità.


C'è una "intelligenza logico-matematica" che sulla terra non vede cose, ma analogie e rapporti: «Il primo uomo - scrive Whitehead - che colse l'analogia esistente tra un gruppo di sette pesci e un gruppo di sette giorni compì un notevole passo avanti nella storia del pensiero». Per questo tipo di intelligenza le cose perdono il loro spessore materiale, il pesce non rimanda al mare e ai naviganti, così come i giorni non rimandano alle opere quotidiane che Esiodo descrive ne Le opere e i giorni.
Per l'intelligenza logico-matematica le "cose" diventano "rapporti" e i numeri che li esprimono diventano la "spiegazione" del mondo, nel senso in cui diciamo che qualcosa si "di-spiega''', si apre alla leggibilità. Platone ne aveva ben coscienza, per questo sul frontespizio dell'Accademia da lui fondata aveva fatto scrivere: «Non si entra qui se non si è geometri».

C'è poi una "intelligenza musicale" che materializza la geometria nel suono. Questa materializzazione instaura l'uomo come colui che ascolta il ritmo di una creazione che lo trascende. La musica non si "dice", si "ascolta", e l'orecchio diventa quel padiglione
aperto al mondo per cogliere quella "armonia invisibile" che, al dire di Eraclito, «val più della visibile». Ascoltate da un' intelligenza musicale le parole cessano di avere un senso per guadagnare un suono. Dominante non è più il significato, ma la voce, ilsuo tono, da cui si desume un senso nascosto del mondo che non si può "dire", ma solo "udire".
C'è una "intelligenza spaziale" che dispiega un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi alle azioni che disegnano quella spazialità visiva, sonora, emotiva che è anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato dalla sua funzione nell'insieme e varia con questa funzione.
Per il navigante, ad esempio, il mare non è uno spazio oggettivo, ma un campo di forze percorso da linee di forza (le correnti) e articolato in settori (le rotte) che lo sollecitano a certi movimenti e lo sostengono quasi a sua insaputa.
La terra che intravede, le correnti che sente, le onde che taglia non gli sono presenti come un dato oggettivo, ma come il termine delle sue intenzioni e delle sue azioni. Nella burrasca non percepisce cose, ma fisionomie: fisionomie familiari come la terra che a distanza si profila, e fisionomie ostilì come le onde nella cui altezza scorge non tanto una dimensione quanto una minaccia.
Se nello sguardo il navigante è magicamente congiunto alla meta, è nella forza e nell'azione dei suoi gesti la possibilìtà di pervenirvi. Qui la sua intelligenza è tutta raccolta nella dialettica corporea tra l'ambiente e l'azione.

martedì 5 marzo 2013

Più unico che raro


Stéphane Hessel è morto a Parigi il 27 febbraio a 95 anni. 
Si salvò dalla morte con uno stratagemma. (Boris Pacor)


The life story of the famed rocket scientist Dr. Werner von Braun, one of the most brilliant and controversial figures of the space age. Dr. von Braun literally pioneered man's adventure ...[Alla conquista dell'infinito (1960) Wernher von Braun (original title) Film B&N USA]

Boris Pacor, 99 anni, racconta: «Eravamo entrambi deportati nel terribile campo di Dora Mittelbau, dove furono allestiti gli impianti per le bombe V1 e i razzi V2. In quel campo..».Qui l'SS Werner von Braun, the most brilliant and controversial figure (sic), perfezionava  con migliaia di operai-schiavi, con esiti controversi, i missili che volavano su Londra allo stremo.


E tre. Trasmettevano l'atterraggio sulla luna del progetto del Dr. Werner von Braun,  the most brilliant and ex-controversial figureandai a camminare sulla battigia, mangiai pane e  fichi con i piedi nell'acqua, ero solo. - tutti erano allo show,  deserto assoluto sui lungomare. Non so perchè, ma ero sicuro di non capire cosa ci fosse di notevole e interessante. EventoTv + FantaTecnologia + altre cose, il tutto nei fascinosi anni sessanta italiani pronti a passare la mano ad altri decenni di varia umanità.


Poi finisce che mi laureo e per sfuggire all'IBM [::] vado a Tivoli a fare il prof al Tecnico Galilei, giusto oltre la diga dell'Enel, ogni mattina. I tecnici erano le scuole più misconosciute in Italia, alcuni eccellenti, tutti comunque pieni di gente. A Tivoli i figli degli operai della gomma della Pirelli, i "garantiti", e dei lavoratori delle Cave di Travertino, i "precari". O almeno così risultava dalle assemblee di classe che fiorivano tra gli studenti - lo stipendio a fine mese ma i polmoni disastrati dai fumi neri versus la precarietà e la durezza nelle Cave - con l'istituto che cresceva nei numeri ma allo sbando sulle scelte, se non attrezzato con le banalità retoriche del boom economico e dell'industrializzazione [::]. Se ti occupavi di  Matematica, con o senza frequentare i laboratori di Fisica (le officine, per così dire, erano distanti dalle aule), si poneva subito la strumentalità delle discipline e l'azzeramento delle loro possibilità espressive nel quadro complessivo della società in cui la scuola doveva esprimersi essa stessa. La generale menata dell'  "imparare a scrivere senza aver nulla da dire"[::]  e a "calcolare avendo sul tavolo visibili gli elementi concreti" [::] era pane quotidiano.

Per la matematica un indirizzo servile, di servizio, e alle lettere la gloria eterna, virginale, dello scrivere bene e leggere meglio. Di mondo, sia qui che là, poco o niente, e questo era un bel guaio. Il livello generale decisamente scolastico da cui segue la storia della contestazione e di contro della dissoluzione del discorso istituzionale. La scuola si gonfia come la famosa rana ed il bove della società si allontana verso altri approdi.
Così la tecnica o meglio le questioni delle tecnoscienze, delle due culture, del contesto produttivo e della società democratica, del sapere diffuso, etc vengono rimandate sine die fino all'esplosione del digitale e della globalizzazione che ora rendono evidente il ritardo delle istituzioni culturali e delle altre in generale.


4 [::] text mode sovrascritture successive
Se avessi saputo del lavoro di Emma, mi chiedo, sarebbe cambiato qualcosa, cosa? Questo intanto dice molto dei tempi che correvano, dato che io non colsi i segnali che forse c'erano delle aperture timide e limitate quanto si vuole dell'università - e in specie dell'Istituto di Matematica Castelnuovo (Guido) - verso l'esterno. Trovai invece, in ogni modo, più semplicemente Emma e il suo lavoro in libreria con i miei mezzi, nello scaffale striminzito della didattica e della matematica, esercitando il mio vecchio mestiere di esploratore autodidatta, nient'altro; non avevo parole chiave particolari da inserire, culture specifiche da vantare, perchè non ho mai amato la scuola, i suoi campioni, che vedevo come bravi manzoniani; e poi non mi pensavo bene in una biblioteca se non come cane da tartufi, o in un museo, no. Insomma mi piacevano in quel tempo i miei rustici allievi così ben visibili e diversi, meno gli artisti e i liberi pensatori con cui mi accompagnavo da tempo, le loro raffinate nevrosi. Trovai semplicemente alla voce Didattica, alla voce Matematica, alla voce Insegnanti il primo libro di Emma, il primo di cui ho un vivido ricordo; lessi l'incredibile approccio che mi iniziava al mestiere, diretto, semplice da sembrare facile: gli errori, chiamati per nome, degli allievi e dell'insegnante, molto prima dei rimedi ad essi, con le vie regie, i precetti. In soldoni, il calcolo letterale e le frazioni, di sicuro; poi, la geometria. Non che io ne sapessi molto, ma erano il mood della vulgata scolastica dell'apprendimento della matematica. Me li trovavo mio malgrado appresso.
Tornai in quella libreria più volte leggendo oltre prima di comprare, non è che col denaro si scialasse, ma poi p'el timor di bucare feci mio il volume de La Nuova Italia.
Facevo cose che a pensarci ora mi sembrano lunari, come dare il passaggio alle puttane che rientravano come me all'ora pranzo, passando per tonto (capivano al volo che ero un pò tonto, con la testa per aria e sorridevano benevole tra sè e sè): il fatto era che io non avevo mai lavorato, neanche un minuto, ed il lavoro mi sembrava una specie di luogo da indagare, tant'era curioso. Quest'impronta per me non l'ha mai persa, il lavoro, quella di uno spazio privilegiato con cui la gratuità dell'arte e del pensare avevano soltanto dei debiti, ma niente di più. Ricordo il trucco pesante ormai sfatto delle signore che portavo, la sonnolenza dopo il lavoro e i risvegli bruschi al mattino, ricordo che c'era un mondo da indagare, che aspettava anche le mie risposte,  gli inutili anni dell'università erano svaniti in un amen. C'era Emma sul percorso e quelli che citava, quello strano De Finetti che francamente all'uni non avevo colto, altri che dirò, ma c'era soprattutto il rischio di deludere i mei tosti allievi che incitavo incoscientemente alla riscossa. Capito ora da quali distanze sideree vi parlo? Sovrascrivo il primo testo di stamane premendo il tasto aggiorna come se fossi io il lettore che infila nel testo i suoi pensieri

Umberto Galimberti
Qui è l'essenza del «pensiero unico» dove i criteri di valutazione sono «produttività»,«efficienza»,«calcolo»,accanto ai quali non ci sono pensieri alternativi o, se ci sono, sono pensieri marginali, ciò intorno a cui non accade mondo. Penso ai pensieri  «filosofici»,«teologici»,«poetici».Sono pensieri possibili, gratificanti, ma il mondo non si organizza a partire da questi pensieri. Allora qui la prima domanda che si pone è questa: siamo consapevoli che la diffusione anzi l'egemonia dell'economico, indicato esclusivamente dal denaro, possa costituire l'unica forma di pensiero a cui educare tutta l'umanità? E ancora: non è proprio qui il luogo decisivo del fallimento etico? Se tutti pensiamo in termini economici, che spazio c'è per un pensiero altro che non sia quello economico? E l'etica è un pensiero altro. Abbiamo stabilito prima un nesso tra tecnica ed economia e lo abbiamo individuato nel«mercato», che è divenuto così razionale da eguagliare la tecnica che è la forma più alta della razionalità raggiunta dall'uomo. A lei subordinata è l'economia che io considero ancora un'espressione «antropologica», perché ancora soffre di una passione umana, da cui è esonerata la tecnica, che è la passione per il denaro. 

Mi chiedo: in un mercato tecnicizzato è ancora consentito «agire» o non resta altro che «fare»? Colui che opera in un apparato «agisce» o «esegue»? E qui non penso solo all'impiegato, ma anche all'imprenditore che è a sua volta privato della possibilità di «agire» perché deve «eseguire» cioè «seguire» azioni descritte e prescritte dal mercato. A questo punto se «agire»vuoi dire compiere delle azioni in vista di uno scopo, e «fare» vuoi dire invece eseguire azioni già descritte e prescritte dall'apparato, che nella fattispecie è il mercato, allora come possiamo introdurre un' etica, là dove nessuno più «agisce»,perché tutti si limitano a «fare» e a «eseguire»? Mi vengono in mente quelle risposte che i generali nazisti davano quando venivano catturati e processati. Si chiedeva conto della loro condotta ed essi rispondevano: «Ho eseguito ordine».Qui abbiamo un esempio di cosa vuoi dire passare dall'«agire» al «fare». Perché colui che fa non è responsabile dei fini ultimi. Se io lavoro in una banca e questa banca, per ipotesi, sovvenziona la produzione delle armi e la sua esportazione io, impiegato, non sono responsabile: primo perché non sono tenuto a conoscere i fini ultimi, secondo perché, seanche li conoscessi, non sono autorizzato a prendere posizione. Allora qui io «faccio», ma non «agisco» più, perché i fini mi sono sottratti.

Ecco,se per noi ormai l'«agire» si riduce a «lavorare» dove il lavorare consiste nella pura esecuzione di azioni già descritte e prescritte, io sinceramente per l'etica non vedo alcuno spazio. Non disponiamo di un' etica all'altezza della tecnica e dell'economia globale. Qui bisogna incominciare a pensare.

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