+49, non male eh per un ciuccione come me
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http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/scuola_e_universita/catte/catte/catte.html |
Non si tratta di una scuola per bambini, ma della «scuola» in generale,dalle elementari all'università, dove si dovrebbe imparare giocando, e dove il gioco non è una pausa, un intervallo, un momento di svago e di libertà, ma fa tutt'uno con l'apprendimento stesso.Naturalmente per accedervi è necessario sapere che cos'è un gioco e fuoriuscire da quel luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone alla serietà della vita adulta.Questo pregiudizio si fonda su due fraintendimenti. Il primo assimila il gioco allo spazio della libertà, della creatività, dell'evasione dalla realtà, dell'assenza di regole, il secondo fa coincidere la serietà,con l'aderenza alla realtà, l'assiduità, la buona volontà non esente da sacrificio,l'impegno, la costrizione. Tutte cose spiacevoli, da cui i ragazzi generalmente rifuggono. In realtà le cose non stanno così, perché il gioco prèvede delle regole che, non osservate, mettono subito il giocatore «fuori gioco». Se così non si facesse,tutti gli altri giocatori non saprebbero più «a che gioco si gioca». Senza regole, infatti, il gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà e non è l'antecedente della serietà, non è un'attività tipica della fase infantile da cui ci si congeda quando si diventa adulti. Il problema semmai è un altro: «Non si può insegnare a giocare». Si possono insegnare le regole del gioco, queste regole possono essere apprese da tutti, ma poi non è detto che uno «si metta in gioco», che voglia mostrare agli altri le sue attitudini o le sue inettitudini, che voglia «giocarsi»la faccia, e allora si dispone ai bordi del campo a vedere gli altri che giocano. A questo punto è possibile chiedersi: quanti insegnanti si mettono in gioco e quanti studenti sono in gioco e non invece ai bordi del campo?