domenica 4 dicembre 2011

il sessantotto e l'oggi incombente

La fine dela scuola (..) La riappropriazione da parte dello studente dell’iniziativa e della responsabilità della sua educazione, il discredito sistematico e la proletarizzazione della figura dell’insegnante, le pratiche pedagogiche che pretendono di fare tabula rasa della conoscenza dei concetti e della storia (spregiativamente considerate come zavorra nozionistica) hanno portato ad un bel risultato: la regressione fino a condizioni di analfabetismo -in Italia a un paleo-analfabetismo, eredità del passato, si è cumulato un neo-analfabetismo fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico. (..) Quell’avversione aggressiva nei confronti della scuola, appartenente ai primi decenni dell’unità d’italia, si sposò negli anni Sessanta con l’anti-intellettualismo educativo, con la glorificazione della spontaneità infantile, il cui antesignano fu Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). (..)
La fine dell’università e della borghesia  Anche il collasso dell’università italiana non dipende soltanto da Berlusconi, il quale semmai ha raccolto i frutti avvelenati disseminati lungo quarant’anni da professori, studenti, giornalisti, politici, sindacalisti, amministratori, professionisti, editori, giudici, preti, faccendieri, industriali e famiglie dei più vari orientamenti, partiti e tendenze e ne ha fatto un bel frullato, il cui prodotto è la legge del 30 dicembre 2010. Sono portato a credere che quasi l’intero popolo italiano abbia voluto questo collasso: chi, infatti, capisce ancora che cos’è l’università moderna? 

Questa è stata inventata dai filosofi nei tre paesi guida del mondo dei primi dell’Ottocento, la Germania, la Francia e l’Inghilterra. Essi l’hanno distinta sia dall’accademia (in cui i dotti parlano tra di loro), sia dalla scuola (in cui viene trasmesso agli allievi un sapere codificato).
L’università è invece il luogo di un nesso indissolubile tra una ricerca che produce con metodo risultati nuovi e un insegnamento che li trasmette. Ma perché ciò possa avvenire, è evidente che gli studenti che arrivano all’università siano già in possesso delle conoscenze di base alfine di poter apprendere il metodo che consente di accrescerle ed innovarle. 
La ragione più profonda dell’invenzione dell’università moderna è di carattere sociale e riguarda il nesso indissolubile tra la scienza e le professioni: in teoria tutti devono avere la possibilità di poter entrare a far parte della classe dirigente e della borghesia indipendentemente dalle famiglie da cui provengono. 
 L’università è lo strumento fondamentale attraverso cui la borghesia conquista l’egemonia socio-politica a danno della nobiltà. Essa è la base della mobilità sociale, la quale ovviamente implica una selezione rigorosa.
La questione universitaria ha un’enorme importanza politico-sociale, perché dal sistema scientifico-professionale dipende l’esistenza stessa della borghesia produttiva e in ultima analisi della democrazia.
Scienza e professione sono le due facce di una stessa medaglia: da un lato il progresso della civiltà dipende dal fatto che ogni questione deve essere affrontata e diretta in modo scientifico, dall’altro la ricerca scientifica non è un fatto privato, ma è al servizio dell’intera umanità (non dello stato). 
Non per nulla l’esame di abilitazione alle professioni (che è una questione statale) è distinto dal titolo nniversitarioLa cosiddetta libertà accademica si basa sul carattere universale del sapere scientifico
Tutto questo bel sistema, che implicava anche procedure di collegamento tra l’università e le scuole medie superiori, è entrato in crisi nel Sessantotto. Si è cercato di restaurarlo nei primi anni Ottanta, per evitare che l’università continuasse ad essere una fucina di brigatisti e di neo-fascisti (come era avvenuto negli anni Settanta per l’insipienza della Democrazia Cristiana), ma a partire dal 1996 esso è stato smantellato via via dai vari governi fino a non lasciarne nemmeno le rovine. Perchè? 

La risposta è semplice: l’esistenza della borghesia non serve più al capitalismo, il quale oggi trova nella classe medio un ostacolo all’espansione stroripante del modello neo-libenistico. La classe media è troppo costosa. Il nostro governo non può permettersi il lusso di pagare quello che Jean-Claude Milner chiama “il salario dell’ideale”: la tradizionale coappartenenza tra capitalismo e borghesia è spezzata. Nell’ottocento il benestante era un borghese che viveva di rendita; nel Novecento l’esplosione tecnologica ha fornito la base di un mutamento sociale che ha visto emergere la figura del borghese salariato (dirigente, ingegnere, profes sore funzionario, giornalista); ma oggi il capitalismo non è più disposto a pagare uno stipendio “politico” largamente indipendente dal mercato.

La destabilizzazione della borghesia e la sua proletarizzazione (negli stili di vita in maniera ancora più evidente che sotto l'aspetto economico) accadono in tutti i paesi occidentali. La distruzione dell’università presenta tuttavia in Italia due aspetti particolari. Il primo è il melting pot di tutti gli aspetti peggiori dell’università americana con quelli dell’università italiana. Il secondo è l’accanimento nell’impedire ogni mobilità sociale, riducendo i giovani in una condizione non  molto dissimile da quella dei “servi della gleba” medioevali, che per nascita erano legati alla terra coltivata dai loro genitori: chi, infatti, può permettersi di mandare al diavolo il capitale sociale e produttivo della sua famiglia, quando questo esiste? L'eliminazione e il depauperamento delle strutture universitarie (per esempio, cattedre che possono trasmettere una rete di relazioni internazionali e un bagaglio molto raffinato di cono- scenze, biblioteche, laboratori, collegi, mense, servizi vari ecc...) hanno uno scopo ben preciso, quello di impedire allo studente di entrare nel mercato globale del lavoro con qualche possibilità di successo. Azzerando ogni possibilità di ascesa socio-economica, (anche attraverso la svalorizzazione dei titoli di studio e la demotivazione dei docenti), il familismo amorale non trova più ostacoli nell’assegnare uffici, impieghi e incarichi ai più incompetenti, ignoranti e corrotti.



Anche qui Berlusconi (accidenti, non riesco mai a ricordare questo nome! Avevo scritto Berloni, il nome di una ditta che produce cucine!) ha trovato la pappa pronta, cotta a fuoco lento per quarant’anni da un populismo becero che si ammanta con abiti di diversi colori. Sotto la pressione del capitalismo neo-liberistico, gli è bastato rendere operativo ciò che gli altri hanno preparato. Però, passato l’incanto, proprio quel populismo gli si rivolge contro e grida: “perché lui e non io?" Perché lui è dirigente, ingegnere, professore, funzionario, giornalista e non io? Ancora un passo: perché lui è deputato, senatore, ministro, presidente del consiglio e non io? Il neo-liberismo non ha più bisogno di professionisti, ma nemmeno di politici. Da ciò deriverebbe, secondo Jean-Claude Milner, l’incredibile voga del discorso caritatevole: la borghesia scopre che il capitalismo non ha più bisogno di lei. Coloro che credevano di essere dalla parte dei vincitori, si scoprono dalla parte dei vinti: quelli che prima imploravano pergli altri, ora implorano per se stessi.

Berlusconi o il 68 realizzato, p.19  pamphlet

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