mercoledì 7 dicembre 2011

Ennio De Giorgi

Come si è certamente capito, la fonte principale di quest’articolo è l’intervista che Michele Emmer fece a Ennio De Giorgi nel Luglio 1996. Le frasi riportate tra virgolette sono pronunciate effettivamente da Ennio De Giorgi durante la registrazione del filmato. Ciò non di meno, quello che si riporta è il senso della frase, e non la riproduzione esatta delle parole, per il semplice fatto che l’autore dell’articolo si è limitato a prendere appunti a mano durante la visione del film; non abbiamo (e non abbiamo riprodotto) lo script esatto delle affermazioni del grande matematico. Il virgolettato va quindi inteso in questo senso lato, e non nel senso canonico di riproduzione esatta e meccanica delle frasi. Naturalmente, tutti gli eventuali errori nel riportare i concetti sono da attribuire a noi, e certo non a Michele Emmer o addirittura a Ennio De Giorgi.



Ennio De Giorgi
«Tutti gli esseri umani nascono liberi
ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza
e devono agire gli uni verso gli altri
in spirito di fratellanza.»
(Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
Articolo Uno)
La camicia non è insolita, tutt’altro. Celeste pallido, e il colore tenue non è dato tanto dal colore poco carico quanto dall’alternarsi ordinato dei quadratini bianchi e colorati, come in quadro di Seurat o dei divisionisti italiani. Camicia che appartiene all’insieme delle camicie classiche e poco pretenziose, da supermercato o mercato rionale, sempre rimaste uguali dagli anni Sessanta fino ad oggi. O almeno fino al Luglio del 1996, che è quando quell’azzurro pallido è rimasto impressionato sul film della telecamera. Più del pallido pied-de-poule, comunque, rimane impresso l’ultimo bottone di quella camicia: è ordinatamente chiuso, al pari di tutti gli altri, cosa insolita quando la camicia è orfana della giacca e soprattutto della cravatta. Quel bottone, quando è ben chiuso, rimane di solito nascosto dal nodo, al sicuro nell’asola: viceversa si palesa slacciato, aperto, con un’aria un po’ smargiassa e un po’ libertaria quando la cravatta non c’è. Vederlo invece così, naturalmente chiuso senza l’alibi del colorato pezzo di stoffa che chiude i colli maschili, è appunto insolito, quasi un po’ fuori tempo, ormai.
Del resto, sembra fuori tempo anche il volto che parla: non sorride spesso, almeno all’inizio dell’intervista, ma quando lo fa è un sorriso davvero bonario, quasi complice, quello che rivolge all’obiettivo. Lo si vede sorridere e si sospetta che il vecchio proprietario di quel sorriso sia, in fondo, un gran timido; però è un piacere sentirlo parlare, anzi sentirlo raccontare, e osservarlo nei pochi gesti che fa, muovendo di tanto in tanto i pochi oggetti che tiene sul suo tavolo pisano. Soprattutto quel sottile plico marrone chiaro, ancora chiuso nel cellophane, che ogni tanto agita e muove sulla scrivania, quasi fosse lì che si annida il filo del discorso: o forse solo perché sente la mancanza della lavagna. Non dev’essere facile parlare ad una telecamera invece che ad una classe di studenti; non dev’essere facile restarsene seduto, a mani vuote di gesso, quando si parla a lungo di matematica.
Se a vederlo colpiscono il bottone e il sorriso, a sentirlo colpisce lo spessore della sua zeta. È una zeta sempre maiuscola, possente, dura. Anche sbagliata in molti fonemi, a dar retta alla fonologia italiana, che vuole le zeta ora dolci ora aspre, ora sorde ora sonore. Anche se l’ortografia non distingue tra la zeta di razza (umana) e la zeta di razza(pesce), le due razze sono diverse, perché diversi sono i suoni della duplice consonante. Un vanaglorioso ma innocente orgoglio fonetico serpeggia nelle scuole di dizione del centro Italia, che sostengono che solo in quelle regioni la zeta sia correttamente pronunciata, a meno di specifica correzione delle parlate locali: il Settentrione rende la zeta già dolce di “calza” troppo morbida, pronta a decadere in una specie di esse, quasi degradando la calza calsa; dall’altro fronte, la zeta meridionale indurisce troppo l’indumento, vestendolo con la consonante aspra e sorda, e rendendolo così figurativamente inamidato alla pronuncia. E allora le zeta che il vecchio professore pronuncia sorridendo dallo schermo lo collocano subito molto a sud nello stivale, pur senza fargli attraversare lo stretto di Messina. Un sud profondo e, nonostante l’apparente contraddizione, molto orientale.
Quanto sono distanti politica e matematica?
Tantissimo, verrebbe da rispondere di getto, senza pensarci: poche cose sembrano più irrazionali della politica, e per contro non c’è forse nulla, al mondo, di più razionale della matematica. Ma a un’analisi più approfondita le certezze sembrano subito un po’ meno granitiche: in fondo, il pitagorismo è stato una scuola filosofica importante, e ha avuto anche qualche riflesso nella gestione di qualche città-stato dell’antichità. Platone era certo un politico, oltre che filosofo, e certo applicava metodi in un certo senso “matematici” nel disegno della sua repubblica ideale. E poi, in generale, dietro e dentro la parola “politica” si cela un significato più nobile e profondo di quello che è veicolato dai giornali e telegiornali dei nostri tempi: politica è organizzazione e regolamentazione dei rapporti sociali, e quindi, in prima battuta, una disciplina umana di fondamentale importanza. È politica scegliere se vivere in una monarchia o repubblica, è politicapreferire uno stato democratico ad uno assolutista; è politica immaginare un’organizzazione sociale che tenda a salvaguardare il reciproco rispetto piuttosto che stratificare la popolazione per classi, dai paria alla nobiltà. È politica decidere chi deve aver diritto alla vita, all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla dignità; e se la risposta che riteniamo naturale all’ultimo quesito è uno scontato “tutti”, significa solo che la politicache risiede nelle nostre teste non è più quella di qualche tempo fa: in altri tempi e in altri luoghi, neanche troppo lontani, quella risposta non era affatto scontata. Anzi.
Piuttosto curiosamente, c’è una teoria che lega in maniera sorprendente la matematica alla politica: è una teoria affascinante, e tutt’altro che assurda, non ci ricordiamo chi l’abbia avanzata per primo, ed è un peccato, perché è certamente meritevole di nota. Noi l’abbiamo sentita citare da Lucio Russo, matematico, filosofo e storico della matematica, durante un ciclo di trasmissioni radiofoniche (Alle Otto della Sera, ciclo “Le Radici della Scienza”, andata in onda su RadioDue: la trasmissione “Alle Otto della Sera” non esiste più, e per quel poco che conta il nostro parere, siamo furibondi con la Rai per questo). Russo con ogni probabilità ha citato l’autore della teoria, ma a noi è sfuggito, o ce lo siamo colpevolmente dimenticato: sono comunque assai interessanti, anche se talvolta controverse, le stesse teorie di Russo, ben riportate nella sua opera principale, “La rivoluzione dimenticata”, in cui parla dei sorprendenti livelli raggiunti dalla scienza nel periodo ellenistico (Feltrinelli 1996, ISBN 9788807816444).
Il punto essenziale della teoria è che la primitiva matematica occidentale, quella greca per intenderci, ha una caratteristica abbastanza peculiare rispetto alle altre “matematiche antiche”, che pure hanno in qualche caso raggiunto risultati significativi: questa peculiarità è il concetto di dimostrazione. In genere, quando le altre culture scoprivano qualche proprietà interessante in aritmetica o in geometria la registravano, dopo averla verificata in più casi, ma senza preoccuparsi più di tanto di ottenere una dimostrazione rigorosa. Agli occhi di un matematico (ma a dire il vero non solo ai veri matematici moderni, ma anche ai comuni mortali frequentatori di scuole o lettori di prestigiose riviste di matematica giocosa), l’idea di sottoscrivere un risultato matematico solo perché “vero in molti casi” suscita orripilazione e raccapriccio; ma questo è frutto proprio della nostra formazione alla greca. Del resto, qual è il vero ruolo della dimostrazione? Perché associamo così strettamente i concetti di verità e di dimostrazione? Soprattutto, perché questo principio non era altrettanto diffuso presso le altre culture antiche? Una possibile risposta è che la maggior parte delle società antiche si basava sul principio di autorità: quel che diceva il sovrano non si discuteva, e il principio informatore si propagava felicemente intatto lungo tutta la piramide gerarchica sociale. Il popolo non discuteva quel che dicevano i nobili, gli schiavi non mettevano in discussione quel che dicevano i padroni, e nessuno osava mettere in dubbio l’interpretazione che i sacerdoti davano del volere degli dei. In una tale situazione, è del tutto naturale delegare agli “esperti”, di qualunque tipo essi fossero, il concetto di verità, senza bisogno di altri tipi di convincimento. Così, se il numerologo di corte sostiene che una circonferenza vale esattamente tre volte il diametro del cerchio, a che vale metter in dubbio l’affermazione?
Nell’antica Grecia, però, i rapporti sociali non sono sempre così gerarchici e autoritari: in molte città, Atene su tutte, il governo dello stato è affidato all’assemblea dei cittadini liberi, e le cariche amministrative sono regolamentate da elezioni. Questa situazione particolare azzera il principio di autorità, ed esalta la dialettica: i candidati che si propongono all’assemblea si confrontano e contrappongono portando argomenti, ed esponendoli a tutti i loro pari. Questi non sono tenuti a dar credito ai candidati – e di conseguenza non sono tenuti a dar loro il voto – a meno che non siano davvero convinti della sincerità e validità delle loro affermazioni. È la nascita della dialettica, dell’esposizione retorica, della logica espositiva: le argomentazioni devono essere convincenti, condivise, comprensibili a chiunque possegga orecchie e intelletto sufficienti ad intendere il greco e le regole del discorso. In quest’ambiente, non c’è dichiarazione che possa essere accettata gratuitamente: è la necessità logica che rende l’orazione convincente, e su questa falsariga potrebbe nascere il concetto di dimostrazione matematica. Non è sufficiente vedere che esistono moltissimi numeri primi, non basta che, avendo la giusta pazienza, se ne possano scoprire sempre di nuovi, per poter affermare che sono infiniti: ci vuole un’argomentazione di natura diversa, inattaccabile e logica, che mostri l’inevitabilità della loro infinità, altrimenti il cittadino greco, restio all’autorità, tenderà a non credere. Per questo Euclide non si limita ad enumerare una pletora di primi, ma inventa la sua splendida dimostrazione per assurdo. Vera o meno che sia, la teoria affascina, perché lega a doppio filo matematica e democrazia, in maniera del tutto inaspettata: anzi, di solito si fa presente proprio il contrario, ovvero che la verità matematica non può certo essere stabilita per acclamazione o a maggioranza: se anche tutti gli uomini votassero a favore dell’esattezza di 1+1=3, quest’unanimità non renderebbe l’espressione meno sbagliata [naturalmente, se si mantengono validi gli usuali assiomi fondativi dell’aritmetica tradizionale: non è certo impossibile immaginare sistemi, matematici o meno, in cui 1+1=3 abbia una sua propria autentica validità, senza dover chiamare necessariamente in causa il simultaneo impazzire di tutta la razza umana (e anche senza dover citare il solito malizioso esempio della riproduzione sessuata)]. Sembra invece che la matrice democratica della matematica, se davvero esiste, sia ben più profonda e meno ovvia: non si potrà decidere a maggioranza sulla verità di un’equazione, ma la forza della matematica di mostrarsi come portatrice di verità potrebbe provenire proprio dalla necessità di considerare gli uomini tutti uguali, tutti con pari dignità giudicante.
Guarda caso, dietro il colletto chiuso della camicia, dietro le dure zeta salentine e dietro il sorriso affabile da sessantottenne, sembrano proprio i fondamenti della matematica, la dignità umana e la ricerca della sapienza i punti centrali dell’interesse dell’uomo che parla dallo schermo televisivo. È stato Michele Emmer a portare la telecamera in quello studio della Scuola Normale di Pisa: grazie alla sua delicatezza di matematico e alla sua abilità di regista, Emmer riesce a far scomparire dal campo visivo tutti gli strumenti dell’intervista: non si vedono luci né cavi, non si immagina la creazione d’un set né alcuna azione preparatoria, logistica. Ci si figura quasi solo la deposizione della camera sulla scrivania, a fare da testimone muto, e l’invito parimenti non detto a raccontare. Certo non sarà andata così: ci vuole molta abilità per far scomparire tutto ciò che deve scomparire, per mettere in risalto ciò deve rimanere, solo, al centro della scena. Con riservatezza quasi eccessiva, il matematico-regista decide non solo di non mostrare altro che l’intervistato, ma perfino di far sparire anche la voce dell’intervistatore. Non si sentono pronunciare domande, prima delle risposte; nella sublimazione dell’invisibilità, spariscono perfino i punti interrogativi, da sempre protagonisti assoluti di ogni normale inchiesta. Ma questa non è un’inchiesta e non è in fondo neanche un’intervista, brevi fotogrammi introdurranno sullo schermo i temi affrontati: matematica e realtà, matematica e creatività, e didattica, e computer, e linguaggio, intuizione, ambiente; il tutto senza rubare spazio e suoni al grande vecchio seduto di fronte all’obiettivo. Lui, camicia allacciata fino all’ultimo bottone, sorriso timido e scrivania sgombra, parla di sé, e di matematica.
Ennio De Giorgi nacque a Lecce l’8 Febbraio 1928: fosse ancora vivo, celebrerebbe oggi il suo ottantaquattresimo compleanno, il che ce lo rende davvero vicino e contemporaneo. Il padre, insegnante di lettere, morì che Ennio aveva appena due anni. Frequentò il liceo classico a Lecce, poi si iscrisse ad Ingegneria a Roma. Dopo il primo anno passò a Matematica, e si laureò con quel gran nume della matematica italiana che era in quegli anni Mauro Picone; a partire dal 1951, a ventitré anni, iniziò la sua carriera accademica come suo assistente. Alla corte di Picone stavano quasi tutti i maggiori analisti italiani dell’epoca; tra questi brillava la stella di Caccioppoli, che proprio in quei tempi sviluppava e teneva seminari sulla sua teoria della misura. De Giorgi, influenzato da questi studi, ottenne i primi risultati di rilievo nella teoria dei perimetri: da qui riuscì a dimostrare, nel 1958, che tra tutti gli insiemi di perimetro assegnato l’ipersfera ha il massimo volume n-dimensionale. Ma già tre anni prima aveva portato un controesempio all’unicità di soluzioni regolari del problema di Cauchy dell’equazione differenziale alle derivate parziali con coefficienti regolari, pubblicazione che lo aveva reso noto a livello internazionale.
Tra il 1955 e il 1957, Ennio De Giorgi dimostra la continuità hölderliana delle soluzioni delle equazioni ellittiche con coefficienti misurabili e limitati anche in presenza di discontinuità dei coefficienti. In buona sostanza, questo significa risolvere definitivamente il XIX Problema di Hilbert, quello che si può riassumere nella domanda “le soluzioni delle lagrangiane sono sempre analitiche?”, che era in agenda alla comunità matematica mondiale dal 1900, e la cui soluzione era stata solo parziale.
Risultati di valore assoluto, definitivo, ottenuti ben prima dei trent’anni di età: basterebbero da soli a consegnarlo alla storia della matematica. Ma dal punto di vista della produzione scientifica, Ennio De Giorgi ha ancora molto da dire, e il suo valore non si limita alla produzione davvero eccezionale degli anni Cinquanta: studia le isosuperfici di area minima, deduce un’estensione alla dimensione tre del teorema di Bernstein: a partire da questo risultato James Simons estende le conclusioni alle dimensioni sette ed otto: di nuovo De Giorgi, insieme a Bombieri, mostrerà poi che la soluzione di Simons è anche minima. Negli anni Settanta, poi, Ennio De Giorgi è tra i fondatori della G-Convergenza.
Per capire l’importanza del lavoro di De Giorgi, forse è più semplice riassumere i premi e le onorificenze che ha ricevuto, e quelle che lo hanno sfiorato. Sfiorato davvero: il suo teorema più importante è identico, o quasi, a quello che ha reso famoso John Nash, l’eroe di “A Beautiful Mind” premiato con il Nobel nel 1994 per i suoi studi sugli equilibri dei giochi non cooperativi; Enrico Bombieri, che in molti lavori ha collaborato con De Giorgi, è tuttora l’unico italiano ad essere stato premiato con la Medaglia Fields. Ma non sono da meno i premi che De Giorgi ha vinto in prima persona: innanzitutto il prestigiosissimo Premio Wolf, nel 1990; nessun altro matematico italiano è nell’albo d’oro. Poi, il Premio Caccioppoli dell’Unione Matematica Italiana, nel 1960; o il premio del Presidente della Repubblica dell’Accademia dei Lincei; o la Laurea Honoris Causa in Matematica della Sorbona di Parigi, l’iscrizione alle Accademie delle Scienze di Francia, degli Stati Uniti e dell’Accademia Pontificia. O la Laurea Honoris Causa in Filosofia che gli tributò la sua Lecce, che lo rendeva particolarmente orgoglioso.
Di tutto questo, seduto alla scrivania del suo studio alla Normale di Pisa, dove per quarant’anni ha tenuto la cattedra di Analisi Matematica, Algebrica e Infinitesimale, Ennio De Giorgi non parla. Inquadrato dalla telecamera di Emmer parla pochissimo di sé, e molto di matematica. E anche di altro.
“È un peccato che matematici, fisici e ingegneri siano adesso divisi, fin dal primo anno d’università” – dice il vecchio professore. Forse pensa a quando iniziò lui, al suo passaggio da ingegneria a matematica, o più probabilmente, alla necessità di avere amicizie da frequentare e coltivare tra persone che hanno interessi simili anche se non perfettamente coincidenti. C’è sempre tempo per prendere specializzazioni diverse, più tardi. La necessità di condividere interessi e amicizia torna spesso, nelle sue parole: arriva perfino a dire che “risolvere un problema matematico senza avere un amico con cui discuterne significa perderne gran parte del valore”. Le prime osservazioni dovrebbero essere in merito al rapporto tra matematica e realtà, ma il professore leccese, curiosamente, racconta di questa relazione in maniera quanto mai originale, trasversale. È quasi scontato aspettarsi il solito panegirico sulla natura descrivibile in termini matematici, o sulle mille applicazioni della matematica alle scienze fisiche, invece Ennio vola molto più in alto. Cita il biblico Libro dei Proverbi, dicendo che “la Sapienza ama farsi trovare dagli uomini che la amano”, e non c’è dubbio che per lui la ricerca matematica è anche, costantemente, parte della ricerca più ampia della sapienza. E sottolinea come sia in realtà proprio l’immaginazione l’arma essenziale per scoprire i segreti della natura, e in questo la matematica è favorita rispetto alle altre discipline perché consente, a differenza delle altre, di esercitare l’immaginazione sia nelle cose visibili sia in quelle invisibili. Questo non toglie che la stupefacente capacità della matematica di descrivere la natura sia, appunto, molto sorprendente: ma forse è ancora più stupefacente che “il teorema di Pitagora resti valido anche negli spazi ad infinite dimensioni di Hilbert”.
Parlando di “realtà” De Giorgi mostra che pochi termini sono più soggettivi, nonostante l’apparente iper-oggettività della parola. L’immagine più colorita che riesce a dare di “matematica e realtà” è una fotografia, quasi un’idea platonica di convivialità: tutti insieme, l’intera comunità accademica o più generalmente matematica, seduti virtualmente allo stesso tavolo (scrivania o tavola imbandita?) “con la libertà di potere immaginare e lavorare autonomamente sulle idee che ognuno preferisce”. Lega le immagini della realtà a quelle dell’ambiente matematico, e il tema non cambia: si dichiara grato a Picone che, anche se professore d’altri tempi, con tutta la carica accademica che allora era richiesta ad un barone universitario, si mostrava assai liberale in ambito scientifico, e riconosceva la piena uguaglianza di opinioni di fronte alla scienza, dal più famoso degli studiosi all’ultimo degli studenti. Di nuovo un principio etico, sociale, politico, che entra nel discorso che dovrebbe essere solo di matematica: discorso che, se si accettano le dovute premesse sul ruolo della matematica come parte della Sapienza (in qualche modo, ogni volta che De Giorgi pronuncia la parola “sapienza” sembra di sentire l’iniziale maiuscola), diventa effettivamente un discorso davvero di pura matematica. Anche quando il tema di sposta sulla creatività matematica, il leit-motivcontinua a tornare: è necessaria la predisposizione al sogno: “pensate con grande libertà, poi sforzatevi di comunicare nella forma giusta”. Come dire che la libertà di pensiero è indispensabile alla creazione, e che la libertà e l’efficienza della comunicazione sono essenziali alla diffusione della conoscenza.
Per De Giorgi, uno dei ruoli della matematica è quello di “ordinatrice delle altre scienze”. Il metodo assiomatico è una conquista universale, che dovrebbe essere estesa anche alle altre discipline, non solo a quelle scientifiche. La ricerca degli assiomi è una componente fondamentale per ogni scienza, per ogni materia e organizzazione. Dagli assiomi, poi, sarà facile far discendere il resto, ma a quel punto la natura della disciplina sarà già identificata, compresa, circoscritta, senza rischio di sbandamenti. Non solo, ma l’assiomatizzazione renderà possibile anche una migliore comunicazione: l’eccesso di specializzazione è dannoso, le conquiste essenziali di ogni tipo di conoscenza dovrebbero essere messe a disposizione di ogni uomo intellettualmente curioso dotato di normali capacità intellettive. I teoremi di Gödel, ad esempio, hanno un’importanza culturale generale che non deve rimanere ristretta alla sola matematica; e se sembra troppo difficile veicolarne il contenuto a causa dell’eccesso di tecnicismi, è importante sforzarsi per fare in modo che il nocciolo della scoperta sia trasmissibile anche fuori dall’ambiente specialistico. Dire che “non possiamo descrivere tutte le caratteristiche dei numeri naturali” non ha certo la pretesa di spiegare pienamente il contenuto dei Teoremi di Incompletezza, ma è un’informazione importante, significativa, e che può comunque essere (anzi, che deve essere) comunicata anche al di fuori dell’ambito matematico.
E le parole scorrono, nell’ora abbondante del DVD. Il plico marrone sigillato, che probabilmente contiene una rivista accademica ancora da leggere, si sposta e si muove in continuazione sulla scrivania, mentre Ennio parla del ruolo di matematica e computer (“Ah, è certo utile per chi lo sa usare con sicurezza e libertà, o perlomeno per chi ha amici che lo sanno usare con sicurezza e libertà,” – e qui un sorriso che degenera quasi in una piccola risata – “diventa dannoso solo se diventa un sostituto della fantasia. Ma è anche fonte di nuove idee, di nuovi problemi, nel senso buono del termine”), di matematica e linguaggio (“Le note matematiche dovrebbero essere scritte in buon italiano, se non vogliamo che l’italiano si atrofizzi come lingua scientifica. Sarebbe bene conservare la letteratura scientifica come letteratura linguisticamente bella: e questo farebbe bene anche all’inglese, perché quella lingua rischia l’impoverimento, se tutto viene scritto solo in inglese da persone che lo conoscono male”), di matematica e divulgazione scientifica (“Bisognerebbe alternare agli studi su problemi particolari anche presentazioni di problemi generali, come le riflessioni dal particolare al generale, dallo storico al moderno”), e poi di storia, di storicismo, di metastoria. La sua timidezza si legge benissimo dietro il sorriso quando deve suggerire qualche sua idea personale, qualche suo convincimento non dimostrabile, ma fortemente sentito. Nel discettare sull’eterno quesito se la matematica sia più un’invenzione o una scoperta, il vecchio professore ha una strana posizione intermedia: non idealista come Hardy, non operazionista come Bridgman, Ennio intravede uno strano compromesso. Un teorema, il suo enunciato, è un oggetto che si scopre, dice De Giorgi: “sta lì, in attesa d’essere scoperto”; la sua dimostrazione, invece, è pura costruzione, pura invenzione. Per questo esistono dimostrazioni diversissime dello stesso enunciato, raggiungibile talvolta anche per strade concettuali apparentemente del tutto disgiunte. E sorridendo cita i percorsi paralleli e diversi che lui e Nash hanno fatto per giungere alla stessa conclusione, e anche il fatto che, di solito, le prime dimostrazioni di un teorema sono complesse e farraginose, e subito dopo la pubblicazione si riescono a trovare altri metodi dimostrativi più facili e lineari. La verità deve essere raggiunta, ma per arrivarci si possono usare diversissimi mezzi di trasporto. L’avessimo saputo per tempo, avremmo usato De Giorgi come nume tutelare ogni volta che manifestavamo la nostra delizia nel ricevere soluzioni diverse (in metodo) allo stesso problema: nella stessa intervista, Ennio racconta che da giovane si dilettava molto a cercare dimostrazioni diverse dei teoremi da quelle che gli presentavano i libri di testo.
Quando si passa a parlare d’insegnamento della matematica, il vecchio professore della Normale non cessa di sorprendere. Comincia con una battuta “André Weil sosteneva che occorresse insegnare poca matematica e molto sanscrito…”, ma poi articola meglio la sua idea, che in fondo è un ulteriore sviluppo della sua affezione verso la convivialità: i suoi studenti raccontano che le sue lezioni erano spesso informali, al punto che talvolta professore e classe si trasferivano in blocco al vicino caffè, continuando a parlare di matematica seduti ai tavolini. “Nello studio universitario ci dovrebbe essere un spazio non trascurabile, dell’ordine del dieci o venti per cento del tempo globale, destinato allo studio degli argomenti che attraggono lo studente in modo del tutto disinteressato. Non solo argomenti attinenti al corso di laurea, anche del tutto generali o diversi. Sennò lo studente finisce col pensare solo alle cose obbligatorie, non a quelle che piacciono per puro amore della Sapienza”; è un’idea forte e rivoluzionaria, del tutto orientata verso un’immagine della cultura lontanissima dall’eccesso di specializzazione che è invece fortemente presente anche e soprattutto al giorno d’oggi. Ennio De Giorgi ne era verosimilmente ben conscio, perché l’argomento lo interessa, e ci torna sopra: “Perfino in Normale quest’offerta è limitata; e lo studente stesso di solito preferisce un binario ben prestabilito, rassicurante. Bene, l’80% del tempo è giusto che sia organizzato così, ma per il restante 20%… ci vorrebbe una sorta di “corso-avventura”, dove persino il docente non sappia dove si andrà a parare”. Ed è nel parlare di corsi-avventura, di interessi non prestabiliti e pilotati, di cultura nel senso più ampio del termine, che emerge il De Giorgi che resta maestro, anche quando non insegna matematica: “Ci vorrebbe poi un corso che si preoccupasse di insegnare i Diritti Umani. Anzi, più ancora che un corso servirebbe che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo fosse distribuita a tutti, docenti e studenti dal primo all’ultimo anno, e che periodicamente ci fossero incontri, seminari, assemblee in cui questi principi vengano studiati, analizzati, discussi.”
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Comincia così laDichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: e così prosegue per trenta articoli che stabiliscono, fissano, in un certo senso assiomatizzano quelli che dovrebbero essere i principi fondanti dei rapporti sociali. Era il dieci dicembre 1948 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, adottò la Dichiarazione. Era un’Assemblea ancora mutilata e scossa dalla guerra, e come tale capace di distinguere con nettezza le urgenze della storia dalle richieste transitorie del contingente; in grado di separare le cose importanti da quelle accessorie. E in quel millenovecentoquarantotto stabilire che nessun uomo aveva diritto di perseguire, prevaricare, sfruttare, violare, schiavizzare altri uomini era considerata cosa necessaria e urgente. Ennio de Giorgi coltivava un’attenzione sviscerata verso i diritti umani, e non perdeva occasione per pubblicizzare la diffusione della carta del dieci dicembre. Non era però solo una pubblicità passiva e comoda, quella che faceva: era membro attivo di Amnesty International, e nel 1973 si era impegnato a lungo, insieme a Lipman Bers e a Laurent Schwartz, per la liberazione del dissidente ucraino Leonid Plioutsch, finché questi tornò in libertà nel 1976. Quando racconta alla videocamera di Emmer della sua idea di diffondere presso gli studenti la Dichiarazione Universale, De Giorgi sembra spostare lo sguardo fuori dalla finestra, quasi ad ampliare la visuale l’orizzonte. Poco prima ha raccontato quanto gli fosse piaciuto dedicare un po’ della sua attività di insegnamento in Africa [Su invito di Giovanni Prodi, per un mese all’anno dal 1966 al 1973, Ennio de Giorgi insegnava gratuitamente per una piccola università di Asmara, in Eritrea. Nel 1969 insegnò anche, per un certo periodo, in una scuola serale per adulti che intendevano prendere la licenza media.], e adesso sembra quasi intimidito ad illustrare quale fosse il suo sogno più grande. Forse ripensa a quando, poco prima, parlava della necessità dell’amicizia (“la tolleranza è fondamentale, ma non basta: è indispensabile che ci sia anche amicizia e comprensione, oltre alla tolleranza”). Torna a guardare l’obiettivo, e quasi scusandosi per l’evidente enormità della cosa, lo illustra chiaramente e brevemente: “Mi piacerebbe che la Costituzione della Repubblica Italiana facesse propria la Dichiarazione dei Diritti Umani. Invece di scrivere autonomamente alcuni articoli che parlano di diritti umani, non sarebbe meglio riportare integralmente la Dichiarazione Universale nella legge fondante dello stato? Sarebbe la prima nazione a farlo, e sarebbe un segnale importante, forte per tutto il mondo…”. È buffo: anche la Costituzione Italiana vede la luce nel 1948, al pari della Dichiarazione Universale. Uno strano modo di dire usa l’espressione “carte quarantotto”, per illustrare il caso in cui qualcosa va a scatafascio, finisce in totale confusione e disordine; ma fuori dal luogo comune, tutte e due le “Carte Quarantotto” che abbiamo ricordato sono documenti fondamentali per il nostro vivere civile. Ennio doveva amare profondamente entrambe, per desiderare di vederle così strettamente legate.
Era un uomo religioso. Credeva in Dio e nella resurrezione (“Posso dire di accettare tutte le proposizioni del Credo, soprattutto la resurrezione”), perché pensava che la ricerca della Sapienza, alla quale si compiaceva di concorrere con le sue ricerche matematiche, avesse senso in quanto connessa alla grandezza divina (“la sete di conoscenza è segno di un desiderio segreto di vedere qualche raggio della gloria di Dio”), e gli sembrava che tutto questo non avrebbe avuto senso se non ci fosse una vita eterna ultraterrena.
Il film finisce, e lascia De Giorgi nel suo ufficio illuminato dal caldo sole del Luglio del 1996. Non sappiamo se i suoi interrogativi sulla vita eterna fossero sollecitati anche da una sua specifica e drammatica esigenza interna, ma resta il fatto che, crudelmente, il destino ha chiamato Ennio alla verifica delle sue convinzioni pochissimo tempo dopo quella giornata passata a parlare di matematica con Michele Emmer. Appena due mesi dopo, nel mese di Settembre, De Giorgi viene ricoverato all’ospedale di Pisa. Subisce diversi interventi chirurgici, che si rivelano comunque inutili. Muore in quell’ospedale il 25 Ottobre.
Cosa abbia scoperto, in quel suo ultimo giorno, non possiamo certo saperlo, e non abbiamo neanche intenzione di chiedercelo; possiamo solo augurargli di avere i suoi desideri pienamente soddisfatti. Quel che è sicuro è che, almeno per quel che riguarda questa vita breve e terragna, è consolatorio scoprire e conoscere, anche solo attraverso un film, una mente così brillante e curiosa, un genio così originale e modesto e, soprattutto, un uomo così attento alla salvaguardia e al rispetto della dignità dei propri simili.
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7 COMMENTI RSS

  • Braviiii!
  • “È politica decidere chi deve aver diritto alla vita, all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla dignità; e se la risposta che riteniamo naturale all’ultimo quesito è uno scontato “tutti”,…
    Dopo la lettura di questo bellissimo articolo su Ennio De Giorgi e su alcune caratteristiche della matematica e della politica, il lettore, ancora tutto emozionato, alla domanda sopracitata risponde “tutti”.
    Poi si torna alla vita reale e si pensa all’interessante parallelismo contenuto nell’articolo e cioè, come le affermazioni della matematica devono essere dimostrate, così anche le affermazioni della politica.
    Ora io mi chiedo: è mai successo in tutta la storia umana che tutti abbiano diritto alla vita, all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla dignità?
    No. Forse in un futuro, ma non ci credo, finora la dimistrazione non c’é.
  • Bello.
    Come al solito. Anzi forse più del solito perché è una figura vicina nel tempo e nello spazio, qualcuno che possiamo rimpiangere di non aver consciuto quando studiavamo.
    Grazie
  • [...] Peccato che sia una schifezza. Può darsi ce ne sia qualcuna di più semplice: parafrasando Ennio De Giorgi, il problema è uno ma le soluzioni sono tante. Resta il mio assunto di base: perché mi devo [...]
  • l’articolo è molto bello. mi viene solo da fare l’appunto che le stime di de giorgi-nash, che pure sono di fondamentale importanza per lo studio delle pde, NON sono il motivo per cui nash ha ricevuto il nobel.
  • Articolo davvero bello, a dimostrazione che un articolo di divulgazione e storia della matematica può “essere scritte in buon italiano, se non vogliamo che l’italiano si atrofizzi come lingua scientifica. Sarebbe bene conservare la letteratura scientifica come letteratura linguisticamente bella”.
  • Delio,
    hai assolutamente ragione. Il Nobel del 1994 a Harsanyi, Nash e Selten fu motivato dalla “…loro pionieristica analisi sugli equilibri nella Teoria dei Giochi non cooperativi“.
    Correggerò l’articolo: quando capita così, non so mai come fare per mostrare il “credito” a chi mi ha segnalato l’imprecisione… dici che basta scriverlo in questo commento?
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