Ci troviamo insomma e ancora una volta davanti a una situazione in
cui l’inamovibilità di certi assunti viene proposta come soluzione al
problema: sono gli studenti a doversi adeguare al livello delle prove;
non i decisori a dover, viceversa, concepire e realizzare strategie e
modalità che consentano di saggiare livelli di competenza senza imporre
la frustrazione di prove al di là di ciò che la scuola fa e oltre ciò
che essa può fare. Prima ancora: è del tutto negata (ferma restando la
necessità che gli studenti maturino strategie culturali, attitudine alla
ricerca, senso critico, conoscenze e competenze di livello altro) la necessità prioritaria di una revisione della scuola
e della didattica – una vera “riforma”, finalmente, dopo tanti
interventi chiamati così, ma svincolati da qualsiasi impianto pedagogico
ed impatto formativo! – che consenta di rivedere anche strategie di
insegnamento e modalità di valutazione, troppo spesso a loro volta
velleitarie, inadeguate, anacronistiche.
La seconda tipologia della prova di Italiano continua però a presentare un livello di difficoltà notevolissimo: si propone la trattazione di un argomento in forma di saggio
breve o di articolo di giornale, in diversi ambiti (artistico
letterario; socio-economico; storico-politico; scientifico tecnologico).
Attraverso l’ausilio di documenti allegati alla traccia, lo studente
deve produrre un proprio testo autonomo, originale, coerente con la
tipologia scelta, rispettandone le regole. Un genere testuale così
complesso di per sé richiede competenze di scrittura
che – se non vengono praticate, curate, nutrite – rischiano di
trasformare la prova in un esercizio di sinossi dei testi proposti. Per
non parlare del fatto che sarebbe interessante – a parti invertite –
provare noi insegnanti a cimentarci con quelle prove «per vedere» – come
cantava Enzo Jannacci – «di nascosto l’effetto che fa». [Marina Boscaino | 24 giugno 2013]
Nessun commento:
Posta un commento