giovedì 12 marzo 2015

raro e unico

"riconosce e approva come vita solo ciò che è unico", diciamo che è una premessa per riconoscersi, mi "funziona".
penso che non si tratti del personalismo dei cristiani, almeno non solo; parlare alle persone è una vecchia cosa.
e con un cortocircuito dialettico, e una semplificazione, posso dire che ti ho riconosciuto come una dei miei compagni di strada, quelli che con la passione e l'urgenza del fare si sono esposti nell'agorà con il loro lavoro.
«Con un minimo di strategia – ha scritto Sanguineti – si riuscirebbe a leggere tutte le interviste di Filippini come una serie di autointerviste: intervistava se stesso». 
Piacerebbe anche a me che le mie scelte degli interlocutori fossero sempre così, un modo di interrogarmi, senza chiudermi e senza auto riferire a me stesso.
 il pubblico la cultura la scuola 
note private al pubblico nella scuola
1. cultura [le parole e le cose]
2. scuola [pamphlet]
Non amo lo studio, non l'ho mai amato in verità. L'ho subito per tanto tempo che solo ora mi rendo conto quanto mi abbia stremato - salvo pochi anni d'esordio, dai miei quattro ai sei anni.
Un'attività coatta che superavo socializzandola per forza, per così dire, cioè studiando mai da solo e sempre con un compagno, spesso in gruppo, e allargando l'ambito con scambio degli appunti a lezione, sintesi, testi recuperati sempre altrove; come se giocassi a pallone o facessi i bagni a mare con gli amici. Rompevo così almeno l'accerchiamento dei dotti, non potendo rivendicare i ciuccioni (non ero così bello e tosto).
In effetti non amo la cultura. L'ho subita e l'ho sopportata sempre per la possibilità di incontrare con essa gente sconosciuta o lontana nello spazio o nel tempo.
Questa premessa, e l'altra, per dire quanto mi venga da lontano il rifiuto della scuola. Sopra tutto la scuola buona, quella che la violenza coatta della cultura te la fa introiettare senza parere. Almeno i cattivi maestri infatti sono palesamente mauvaises e spuntati.
In fondo noi trattiamo di scuola come addestramento e quando passiamo ai toni alti con la questione della formazione umana, della scuola dei maestri di vita, facciamo danni incommensurabili.
L'addestramento è galera visibile, la formazione che si specializza in Forma Scuola è pura crudeltà moderna.
La "scuola" pubblica dello stato dovrebbe essere chiusa una volta per sempre, e basta. Almeno in un paese civile, occidentale, a struttura liberale e aperta. Poi, naturalmente, liberi di farle scuole a proprie spese, ovvio.

Mi ha sempre colpito in Emma, la Castelnuovo poco Bovary e molto Gustave, il come si ponesse con i suoi ragazzini tra uguali, senza neanche le rettoriche del lavoro comune, almeno quelle che elaborano specificamente la materia che trattano - senza lasciarla respirare en plein air nei tratturi con cui si guadagnano gli alti piani. E Célestin, nostro Freinet? Spudorato, come don Lorenzo del resto nella sua pulsione pedagogica, in ogni caso rompe il senso comune e poi lo invoca d'altra parte: e quindi questo è bene se pensiamo a dove fossero questi nostri eroi ribelli.
Della mia vita scolastica rivendico, sia chiaro, non un generico ribellismo - del quale non facevo carico più di tanto alle pratiche tra i banchi e le cattedre - ma la testimonianza, l'esperienza del dissidio.
(Oggi tutto ciò è maturo, pregno: ha solo da essere partorito nei posti e nei
momenti giusti). 


Parigi – Roland Barthes. «Caro Roland Barthes…». È talmente amabile, cortese e soprattutto «lui», che viene spontaneo apostrofarlo così. Al telefono mi ha detto che si sente a terra, vuoto, come un citron pressé, un limone spremuto. Ma adesso arriva tutto bello liscio e sorridente, appena asimmetrico sotto il baschetto blu. Si accende un «cigarillo» sorridendo, e la sensazione è: di agio, di piacere, di felicità – sopra una lontanissima mestizia.
È immediato anche il piacere di sedergli accanto. Come Foucault, Barthes è professore al Collège de France: 26 ore di lezione all’anno aperte a tutti, cioè idealmente a tutta la nazione: è il «collegio della Francia». Ma a differenza di Foucault, che emana la chiusa energia dei grandi amministratori del Sapere, Barthes sembra sempre ritornare da un perversissimo festino. È il suo festino permanente con la letteratura, il suo ininterrotto «godimento», la sua laboriosissima «jouissance». Agli occhi di un altro, Barthes «è» la letteratura, anche se quest’idea un po’ iperbolica potrebbe dispiacergli.
Caro Roland Barthes, come le dicevo mi sto occupando degli intrecci misteriosi tra linguaggio, scrittura, politica, storia… Lei ha sempre abitato nel linguaggio, nella scrittura. E mi dicono che molti giovani oggi si riconoscono in lei. Ma non posso pretendere che me lo spieghi lei, il desiderio dei suoi lettori…
Mi guarda con gratitudine, sorridendo.
Ormai il suo lavoro copre una trentina d’anni…
«Sì, ho cominciato a pubblicare dopo i trent’anni perché nella mia giovinezza ho passato sei anni in sanatorio. Sei anni di malattia. Vivo con sei anni in meno…».
I suoi primi articoli sono del ’47, su Combat. Il suo primo libro del ’53, Il grado zero della scrittura. Il primo «grande successo» del ’57, Mythologies (in italiano Miti d’oggi).
…ci si potrebbe entrare da mille porte. Ma facciamo così: tutto il suo lavoro è attraversato dall’interesse ai mezzi di comunicazione di massa…
«Sì, ma un interesse ambiguo. Il mio vero interesse costante è stato per la scrittura, la pratica letteraria, che implica una maggior sinuosità…». Se c’era una parola che avrebbe riassunto tutto, ecco, l’ha detta: «sinuosità». «I mass-media erano un oggetto da decifrare e da criticare. L’ho fatto prima con un linguaggio marxista o meglio sartriano, al tempo delle Mythologies, poi con un approccio che si voleva scientifico, al tempo della semiologia».
Dice «al tempo della semiologia» come se parlasse di secoli lontani. Allude agli anni ’64-’67, quando imperava lo strutturalismo e lui cercava di trovare un metodo «scientifico» per capire cosa fanno gli uomini quando parlano, quando «producono senso».
«I mass-media mi interessano sempre. Ma quando ero giovane ero più combattivo. E il mondo era diverso. Oggi vedo di più le ambivalenze di quella cultura, odiosa e amabile… Oggi, o io invecchio, o i mass-media hanno più presa: li vivo come una minaccia per la mia libertà. Il mio atteggiamento è un po’ quello del si salvi chi può…».
Dunque si sente molto lontano dalle Mythologies?
(Vi si parlava di tutto ciò che ingombra la vita quotidiana, dal filetto al sangue ai settimanali alle poetesse-bambine; di tutto ciò che nella vita sembra «naturale» e non lo è perché è un effetto di linguaggio).
«C’è sempre in me una pulsione mitologica; se così posso dire; ma oggi non c’è più un unico sistema mitologico. Per una ragione storica e politica. È cambiata la figura della Sinistra. Ci sono mitologie a destra, ma anche a sinistra. Il potere della cultura delle mitologie attraversa le lotte di classe e si mescola alla delusione verso i regimi comunisti… È difficile situarsi. Si può adottare un atteggiamento combattivo, oppure un atteggiamento più filosofico e più saggio: di presa di distanza… C’è anche un problema di struttura psicologica personale: io non amo la violenza, è un problema che non so risolvere. E poi, che cosa può fare lo scrittore? I mezzi di un tempo sono logorati, firmare petizioni è derisorio, scrivere vuol dire scrivere per gli intellettuali: è acqua sulla gomma, ça glisse, scivola via… Ecco, non so che fare, sono disorientato».
Ma forse anche i media scivolano via: sulle masse…
«È una riflessione che andrebbe fatta. I media forse non mordono. Ma creano immagini. Le società avanzate attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche. Sono dominate da un immaginario generalizzato quale non è mai esistito al mondo… Persino la Chiesa cattolica: l’immaginario è intatto, la credenza…».
Quando R. B. (così gli piace firmarsi) ebbe finito di analizzare, prima coi mezzi del marxismo sartriano («Il mio marxismo» dice «era comunque un marxismo aberrante; mi ci ero strusciato contro attraverso il trozkismo, che era una maniera di non essere stalinisti..»), poi con quelli della semiologia e dello strutturalismo («per me», dice, «era una pratica di demistificazione dei discorsi, ma al super-io politico era succeduto il super-io scientifico»…), scrisse un piccolo libro che potrebbe essere l’insegna di tutta la sua opera: Le plaisir du texte, il piacere del testo. «…Il testo che tu scrivi deve fornirmi la prova che mi desidera. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra (e di questa scienza c’è un solo trattato: la scrittura stessa)…». Era il 1972. Ed eccolo qui il segreto: tutto il lavoro del «secondo Barthes», S/Z (analisi di un racconto di Balzac), Sade, Fourier, Loyola, Nuovi saggi critici, persino un Roland Barthes, un libro su se stesso, è dedicato alla «scienza dell’agio dei godimenti del linguaggio». Il segreto dei suoi festini, e dell’inaudita libertà di cui sembra godere, è tutto qui.
E poi c’è anche una libertà della letteratura…
«Quando mi allontanai dalla semiologia, si trattava di ritrovare il soggetto che parla, che dice, che scrive. La semiologia vive in qualche modo della morte del soggetto. Ma per quanto riguarda la libertà della letteratura, la letteratura non è più sostenuta da immagini positive nella società. E lo scrittore non è più un valore. Per esempio: i suoi libri non si vendono. In Francia l’ultimo scrittore è stato forse Malraux. Sartre è stato una cerniera: tra lo scrittore e ciò che è venuto dopo, il polemista. Il fatto stesso che si parli di me come di uno scrittore, significa che la società francese ha bisogno di scrittori, ma non li sa o non li può produrre e non li sa riconoscere».
Oltre che dei mass-media e della letteratura, lei si è sempre occupato anche della storia. Sto pensando al suo amore per Michelet, il grande storico della Rivoluzione francese.
«Michelet, è esatto. Ma prima di tutto la sua storia è una storia allucinata. In secondo luogo è una grande meditazione sulla morale. In terzo luogo la sua, più che una storia, è un’etnografia della cultura francese: si occupa del corpo, del nutrimento, dell’abbigliamento… È il tipo di storia che mi attrae».
Ma Michelet indicava anche un grande appuntamento con la storia.
«Sì, formidabile. Ma poi, nella memoria culturale, è diventato uno scrittore radical-socialista, laico, di un progressismo che oggi appare a molti molto sospetto».
Vuol dire che gli appuntamenti con la storia non sono mai quelli che uno immagina che siano?
«In un certo senso… Forse».
Lei aveva preso di recente un appuntamento settimanale coi lettori del «Nouvel Observateur»…
«Sì, ma ho interrotto. Non ero soddisfatto. Ho scritto quindici cronache e poi ero stanco. C’era un’interrogazione sul mio lavoro, e riguardava di nuovo i mass-media. Volevo far sentire la mia voce, una voce non gloriosa, non perentoria, non obbligata alla retorica della forza e della sicurezza come quella dei giornalisti, che pure hanno molto talento: discreta, esercitata su piccoli problemi, la voce di uno scrittore…».
Non ha funzionato?
«Non ero soddisfatto».
Sono difficili gli appuntamenti con la storia?
«Non so. A vent’anni c’è il mondo. Ci si può pronunciare. Poi passa il tempo. Dopo un certo tempo, trascorso chissà dove, non si sa se il mondo è cambiato o se sono io che sono cambiato… È difficile pronunciarsi».
Cioè, la storia non esiste?
«Proprio così. La storia è la biografia».
Si scusa. Deve telefonare. Stavo per domandargli un migliaio di cose. Sapendo già «da dove» sarebbero venute le risposte. Ha scritto di sé, in quel libro su Roland Barthes: «A volte ha voglia di lasciar riposare tutto quel linguaggio che c’è nella sua testa, nel suo lavoro, negli altri, come se il linguaggio fosse anch’esso una delle membra affaticate del corpo umano; gli sembra che se si riposasse dal linguaggio, si riposerebbe tutto intiero, grazie a un congedo concesso alle crisi, agli echeggiamenti, alle esaltazioni, alle ragioni, ecc. Vede il linguaggio nelle parvenze di una vecchia donna affaticata…».
Torna dal telefono. Sorride. Ci sono tanti modi di essere contemporanei della propria storia, che non esiste. «Caro Roland Barthes…».

1 commento:

flora turini ha detto...

Molto interessante questo post, anche se mi manca la cultura necessaria per capire le tue associazioni di idee.
Io invece ho amato sempre la scuola, i libri, lo studio in solitudine, come l'unico modo di giocare,oltre all'attività fisica,che mi aiutasse a capire me stessa e il mondo in cui vivevo, organizzando in modo più evoluto le mie infinite domande. Però non ho usato gli insegnamenti come risposte da usare come oggetti che si comprano al mercato. Non mi sono mai sentita veramente inserita in un gruppo culturalmente o ideologicamente, ma solo quando dovevamo progettare e agire situazioni concrete. Forse una disadattata o con l'anima di un eremita... anarchica? sì. Ho letto molto ma solo per rispondere a domande urgenti, soprattutto circa le relazioni umane, mai come un intellettuale. Mi interessava capire per cambiare e crescere, il sapere alla fine, solo come un cibo, una volta che l'hai mangiato, lo dimentichi. Per questo motivo penso che anche per te non sia facile seguire le mie associazioni di idee: troppo marginali rispetto a qualunque contesto culturale o accademico. Evidentemente però troviamo qualche sintonia e comprensione attraverso le vibrazioni degli stili di vita e dei gruppi che abbiamo attraversato. Per me IO SONO e UNICO indica solo la differenza fra ciò che è momento vitale, quindi irripetibile, da ciò che è artificiale e clonabile (Ai giorni nostri purtroppo anche la vita materiale) Non posso confrontare unico con raro perché raro si riferisce al numero, mentre unico è la qualità fondamentale di ogni essere vivente e direi di ogni suo momento vitale. Tutti siamo unici,anche se molti preferiscono diventare artificiali ripetendo continuamente un se stesso o un'immagine ideale con cui il potere li ha programmati. Penso che con parole e pensieri diversi alludiamo più o meno allo stesso argomento. Scusa il mio ardire a esprimermi con parole così povere e soprattutto senza riferimenti culturali, ma non ricordo dove e quando ho maturato certe idee ... se sia personalismo cristiano o qualunque alta cosa. Ho mangiato un po' di tutto, ma l'ho dimenticato.
Spero di non averti annoiato
Buon sabato, ormai

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